Maria Teresa Marchese per www.lastampa.it
Ora è parroco a Voghera don Pietro Sacchi, il sacerdote orionino che nella precedente fase della pandemia aveva offerto il proprio servizio di accompagnamento spirituale al Covid Hospital di Tortona.
Ancora non si sa chi prenderà il suo posto in questa seconda fase. «Ho terminato l’incarico in ospedale i primi di luglio e sono andato a Modena, nella comunità per minori di cui sono legale rappresentante, a fare l’educatore. Il 6 settembre, c’è stato il mio insediamento a Voghera come parroco di San Pietro».
L’ospedale di Tortona è di nuovo Covid Hospital, ma lei non tornerà tra i malati.
«Non mi dispiacerebbe essere là, gomito a gomito con il personale ospedaliero con cui ho lottato durante la fase precedente, ci sentiamo spesso, mi aggiornano. Mi hanno detto che stiamo tornando come prima e sono preoccupati ».
Come si sente psicologicamente?
«Sono abbastanza tranquillo, forse questa esperienza ha rinforzato in me una certa sicurezza, ho imparato a stare attento, ma anche a demolire i tabù che, se non hai un confronto stretto con la realtà, rischiano di diventare gabbie di terrorismo psicologico».
Di che cosa hanno bisogno le persone in ospedale?
«Di contatto umano, che può passare anche dallo sguardo quando il sorriso è impedito da una mascherina, di vicinanza.
Vorrei sfatare un mito: non è vero che le persone morivano sole, c’era il disagio di non poter vedere i propri cari, ma il fatto che chi moriva in ospedale non avesse nessuno è una bugia, perché infermieri e medici sono diventati una famiglia e si moriva con tutte le cure necessarie e la dignità di qualcuno che ti accompagna».
reparto di terapia intensiva brescia 6
I malati a cui è stato accanto l’hanno cercata?
«Sì, qualcuno mi ha mandato anche un salame e una bottiglia di barbera. C’è contatto whatsapp e telefonico anche con le famiglie. È molto bello, condividiamo percorsi di risurrezione. Nei messaggi scrivono di tutto, anche pensieri semplici.
I dialoghi in ospedale erano molto basilari ma dovevano essere carichi di attenzione, amore, affetto e il linguaggio è un canale che fa passare quello che sei.
Anche quando una persona sta molto male, magari non ragiona sui contenuti del dialogo ma avverte la presenza. Il canale emotivo funziona pure quando non si è troppo lucidi, perdi la ratio ma non la dimensione affettiva».
Che Natale sarà?
CORONAVIRUS - TERAPIA INTENSIVA
«Una volta, parlando di musica con un vescovo che stimo tanto, lui mi disse: tu lo sai chi è il vero artista? Colui che canta la luce. E sai perché canta così bene la luce? Perché vive al buio, il suo vivere al buio stimola una ricerca incondizionata della luce.
Natale potrebbe essere forse buio per tanti aspetti, perché privato del folclore e della affettività commerciale, però potrebbe essere una cosa più vera, simile alla ricerca della luce dell’artista che vive al buio. Non penso che il Covid abbia portato solo un male, ma sia stato un grande elemento di verità.
Stiamo piangendo la perdita delle sicurezze che la nostra normalità ci forniva, un Natale bello, luminoso, ma molto artificiale, fatto di panettoni e spumanti, di film. Ma se davvero ci domandiamo cos’è il Natale, ci allontaniamo mille miglia da quanto di rassicurante ci procurava quel Natale finto e molto commerciale.
Questo tempo di Covid che certamente lascia ferite e lutti degni di rispetto e da non augurare a nessuno, può portare a un contatto molto realistico con la consapevolezza di ciò che la vità è realmente che non è mai così nitida come quando rischi di perderla senza poterla controllare».
Lei che ha visto con i suoi occhi il dolore dei malati cosa vuole dire ai negazionisti?
«La prima fase di elaborazione del lutto è il diniego, lo stesso vale per la malattia, l’idea di poter morire. Dal punto di vista psicologico è gente che si è fermata alla prima fase perché ha paura, è il bisogno di difendersi più infantile.
Da un punto di vista spirituale penso che da ogni situazione, anche la più brutta, il buon Dio sia capace di tirar fuori del bene. La realtà prima va accolta per quella che è, poi va messa in campo la fede, l’idea che non siamo soli ma amati e guardati dal Padre che ci accompagna pure nei momenti più bui».
paziente di coronavirus in ospedale