Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Il consigliere istruttore Rocco Chinnici era saltato in aria da nemmeno un anno (luglio 1983), i poliziotti Beppe Montana e Ninni Cassarà sarebbero stati uccisi l' anno successivo (luglio-agosto 1985). Scorreva il sangue, intorno alle indagini che avrebbero portato al maxi-processo di Palermo, e in questo clima Paolo Borsellino - ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia l' 8 maggio 1984 insieme a Giovanni Falcone e Nino Caponnetto che aveva preso il posto di Chinnici - distillava la sua amara ironia sul destino di morte che si respirava tra i giudici del pool antimafia:
«Buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina con strombazzamento di sirene, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata, che evidentemente non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, però non vedo che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere, poi, libero di essere ucciso la sera».
La voce, ancora giovane ma già arrochita dal fumo, del magistrato trucidato il 19 luglio 1992, 56 giorni dopo Giovanni Falcone, riemerge dagli archivi segreti della commissione parlamentare antimafia che ha deciso di rendere pubblici gli atti riservati dal 1963 al 2001. Quasi quarant' anni di storia della mafia e dell' antimafia dai quali per adesso il presidente Nicola Morra, insieme al magistrato Roberto Tartaglia e altri collaboratori, hanno ripescato sei audizioni del magistrato palermitano ucciso nella strage di via D' Amelio, in occasione del ventisettesimo anniversario.
«Parole che potranno risuonare nelle coscienze di tutti noi», commenta il premier Giuseppe Conte, mentre Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, protesta contro «tutti i vergognosi segreti di Stato ancora esistenti, non solo sulla strage di via D' Amelio ma su tutte le stragi di Stato».
PAOLO BORSELLINO - STRAGE DI VIA DAMELIO
Il materiale messo dall' Antimafia a disposizione di tutti contiene 1.612 documenti ancora inesplorati, che potrebbero custodire verità, rivelazioni e piste investigative rimaste nascoste per tutti questi decenni. Le parole di Borsellino rese note ora non contengono rivelazioni sul piano giudiziario, ma sono la cartina di tornasole di uno Stato che, all' epoca, combatteva pressoché a mani nude un' organizzazione criminale in grado di sterminare i propri nemici come e quando vuole.
I quattro giudici istruttori che stavano lavorando all' inchiesta più importante e più imponente che sia mai stata fatta sulle cosche (con Falcone e Borsellino c' erano Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, oltre a Nino Caponnetto che aveva sostituto Chinnici), avevano finalmente ottenuto un computer, un vecchio Honeywell prima maniera, senza essere in grado di farlo funzionare.
«Purtroppo non sarà operativo se non tra qualche mese - denuncia Borsellino all' Antimafia - perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché. So soltanto che è arrivato al tribunale di Palermo ed è stato collocato in un camerino». Con i vecchi metodi, «le nostre rubrichette artigianali», il maxi-processo non si poteva gestire.
PAOLO BORSELLINO - LA STRAGE DI VIA D AMELIO
Eppure ce la faranno a portarlo a termine. Al prezzo di «deportare» Falcone e Borsellino nel super-carcere abbandonato dell' Asinara durante l' estate del 1985, all' indomani dell' omicidio Cassarà, perché in nessun altro posto le autorità erano in grado di garantirne la protezione mentre dovevano completare l' ordinanza di rinvio a giudizio.
Ma proprio il successo del «maxi» diventerà l' oggetto di un altro amaro commento di Borsellino all' antimafia, l' 11 dicembre 1986, quando le udienze erano in corso nell' aula bunker dell' Ucciardone e lui era da poco diventato procuratore della Repubblica a Marsala: «Oggi qui in Sicilia abbiamo l' esatta sensazione di un calo generale di tensione con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Si tende a confondere il fenomeno con il suo momento processuale.
giovanni falcone paolo borsellino
Sotto questo aspetto forse il maxi-processo è stato un danno, perché oggi si guarda al fenomeno mafioso come c' è dentro l' aula, come se tutti i problemi fossero accentrati lì». Invece di mafia ce n'era ancora tanta, fuori, libera di reagire e colpire. «Lo Stato ha fatto questo enorme sforzo - avverte Borsellino -, ma non deve ragionare in questo modo: "vi abbiamo dato il giocattolo, adesso cosa volete di più?". Certe volte abbiamo questa sensazione».
Anche a Marsala il magistrato lamenta scarsità di uomini e mezzi, nonostante la provincia di Trapani sia diventata «una specie di "santuario" delle cosche mafiose», dove i boss Riina e Provenzano avevano deciso di investire denaro e reclutare affiliati. A differenza dello Stato. Per far circolare una volante in città anche di notte, accusava Borsellino, aveva dovuto dimezzare la propria scorta, in modo da liberare poliziotti. E la voce del procuratore, solitamente calma, si altera durante lo sfogo del 4 dicembre 1989: «È un po' paradossale che la commissione antimafia ci venga a chiedere qual è lo stato delle indagini sulla mafia, perché nei nostri tribunali non vi è memoria storica a livello di magistratura sul fenomeno, né ve ne potrà mai essere se continuerà questo frenetico ricambio di magistrati che, dopo al massimo due anni, vengono trasferiti».
PIETRO GRASSO CON FALCONE E BORSELLINO
Senza sostituti procuratori, lui che era capo dell' ufficio doveva passare la maggior parte del proprio tempo a occuparsi di assegni a vuoto, «e poiché talvolta devo pur svolgere delle indagini di mafia, lo faccio di notte... Io comunque non mi arrendo, non alzerò le braccia. Certo bisognerà vedere la resistenza fisica mia e dei miei colleghi».
foto di letizia battaglia paolo borsellino
Due anni più tardi, nel 1991, tornò a Palermo come procuratore aggiunto, e nel 1992 fu costretto ad arrendersi di fronte al tritolo che lo uccise.
PAOLO BORSELLINO CON LA MOGLIE AGNESE