Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”
Una lettera straziante, lucida, potente. Così potente che puoi vederlo, Seid, mentre scrive «ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone». Seid Visin aveva 20 anni.
Era nato in Etiopia ed era stato adottato in Italia da piccolo, a Nocera Inferiore, dove l' altro giorno si è tolto la vita e dov' era tornato dopo un paio di stagioni passate a Milano a giocare nelle giovanili del Milan con Donnarumma. Aveva indossato anche la maglia del Benevento ma alla fine aveva scelto di studiare. Fine del calcio professionistico. Di recente si era impegnato per l' Atletico Vitalica, una squadra di calcio a cinque.
Lo sport, lo studio, la famiglia. Ma Seid avrebbe voluto anche altro, e cioè vivere in un mondo senza razzismo. Lo sguardo di disprezzo, la donna che si tiene la borsetta se sali sull' autobus, la commessa che ti segue convinta che ruberai... ogni piccolo gesto è la lama di un coltello che ti tormenta. E Seid la sentiva ogni giorno di più, quella lama.
Tempo fa aveva scritto sull'argomento una lettera mandata ad alcuni amici e alla sua psicoterapeuta. Parole drammatiche che oggi sono anche il suo testamento. Eccone alcuni stralci. «Io non sono un immigrato» scriveva.
«Sono stato adottato da piccolo (...). Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità.
Adesso sembra che si sia capovolto tutto». (...) «Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro».
E ancora: «Dentro di me è cambiato qualcosa», scriveva Seid. «Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco». Poi una sorta di confessione: «Facevo battute di pessimo gusto su neri e immigrati (...) come a sottolineare che non ero uno di loro. Ma era paura. La paura per l' odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati».
Il finale chiarisce che «non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d' acqua in confronto all' oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un' esistenza nella miseria e nell' inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l' hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente "Vita"».
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