Francesca Visentin per "www.corriere.it"
«A tre anni voleva giocare solo con le bambole. E i cartoni animati dovevano essere principesse: Biancaneve, Ariel, Aurora. Se le arrivava un regalo che non fosse una bambola, piangeva e si arrabbiava. Crescendo, cercava nei miei armadi foulard per realizzare vestiti eleganti con lunghi strascichi e faceva piroette come fosse al gran ballo di corte. L’unico regalo che chiedeva a Babbo Natale era diventare una bambina…».
Il racconto di mamma Mariella Fanfarillo è preciso. La scelta di Olimpia, parte da lontano. Piccolissima, si sentiva già femmina e lo dimostrava in ogni modo. Una consapevolezza solida, che l’ha portata a 16 anni a iniziare la sua transizione di genere e ottenere in poco più di un anno, da minorenne, il riconoscimento del cambio anagrafico di sesso, da maschio a femmina, senza l’obbligo dell’operazione.
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Il secondo caso in Italia. Una battaglia per il diritto di essere quello che sentiva, sempre appoggiata dalla sua famiglia. Ma è lunga la lista di sofferenze che Olimpia ha affrontato fin da piccolissima: pregiudizi, insulti, bullismo, discriminazione. Un percorso a ostacoli che mamma Mariella ha raccontato nel libro Senza rosa nè celeste. Diario di una madre sulla transessualità della figlia (Villaggio Maori edizioni), che giovedì 1 agosto presenta al Padova Pride Village.
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Come genitori avete fatto voi la richiesta di cambio di sesso di Lorenzo al tribunale, perché ancora minorenne. È stata una decisione sofferta?
«Era l’unica decisione possibile — racconta Mariella Fanfarillo —. Tanti mi hanno attaccata dicendo “è troppo piccola”. No, era l’età giusta. Se avessi aspettato ancora le avrei tolto altri anni di vita.
Soffriva fin dai primi anni di età nel sentirsi intrappolata in un corpo che non corrispondeva all’identità di genere femminile in cui da sempre si è riconosciuta. Così come da piccola se le avessi tolto le bambole avrebbe sofferto, da adolescente se avessi rimandato la transizione di genere l’avrei condannata ad altri anni di dolore».
Quando avete iniziato a capire quello che stava succedendo in Lorenzo?
«Subito. I primi anni dopo la nascita. Era come se avessi avuto una bambina biologica, ma in un corpo maschile. Solo che allora di varianza di genere non se ne parlava, non sapevo nemmeno che esistesse. Ma vedevo come si comportava mia figlia, le sue richieste, la sua sofferenza.
Sono stata una mamma autodidatta, mi sono informata, ho imparato tutto sull’argomento. Per me la transizione ha significato sostenere e accompagnare mia figlia, cambiare insieme a lei. Anche per suo padre che è un militare non è stato facile, ma poi l’ha totalmente appoggiata».
Olimpia oggi ha 19 anni, è una bellissima ragazza, diplomata con il massimo dei voti, ha trovato anche l’amore. Com’è stata l’adolescenza, quand’era nella gabbia di un corpo maschile?
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«Le elementari, ma soprattutto le medie e i primi anni delle superiori sono stati un vero inferno. Prese in giro, insulti, bullismo. La scuola purtroppo non sa accogliere, i primi a discriminare sono stati gli insegnanti. Un docente di educazione fisica la chiamava “Signorina” in maniera ironica e dispregiativa davanti a tutta la classe. E tanti “frocio”, “finocchio” urlati dai compagni, non venivano mai ripresi.
I ragazzi non sono educati ad accogliere. Non aveva amici. Un insegnante mi ha detto: “Ma sono ormai termini sdoganati dal linguaggio comune, non bisogna prendersela”. C’è stata anche un’aggressione fisica. Insomma, anni di grande sofferenza in cui mia figlia non voleva più uscire di casa e rifiutava di andare al mare o in piscina per l’incubo di mostrare un corpo che non sentiva appartenerle».
La decisione di affrontare la transizione di genere, quando è stata presa?
«A 13 anni circa è iniziato il sostegno con una psicologa, ma è stato a 16 anni che mia figlia mi ha detto: “Mamma, l’hai capito vero che sono donna?”. A quel punto abbiamo iniziato il percorso di adeguamento tra identità fisica e identità psichica. La richiesta abbiamo dovuto farla noi genitori perché lei era minorenne.
È iniziata una nuova battaglia: le avevo promesso che in un anno avrebbe ottenuto la sentenza (tempi record) e ho fatto l’impossibile per esaudire il suo desiderio. Mi sono messa contro al mondo. Ce l’abbiamo fatta.
Anche grazie al nostro avvocato. È una sentenza rivoluzionaria: un ragazzino minorenne considerato in grado di decidere della sua vita. E il cambio dei dati anagrafici e dell’identità di genere è stata riconosciuta anche senza l’intervento di demolizione e ricostruzione chirurgica del sesso, che equivale a una sterilizzazione forzata e oggi è interpretato come lesivo della libertà».
Perché raccontare tutta la storia in un libro?
«Voglio dare un messaggio positivo che sia una speranza per i ragazzini che si sentono intrappolati in un sesso biologico che non gli appartiene. E per i genitori confusi, feriti, impotenti nel relazionarsi con figli che vivono la disforia di genere. Voglio portare questo libro nelle scuole, può fare formazione pedagogica.
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Ho già avuto tanti incontri con i ragazzi, informare è importante per evitare discriminazioni. Spiegando, si possono aprire gli occhi alle persone, allontanare paura, diffidenza, violenza. È anche il motivo per cui mi sono buttata a capofitto nell’attivismo su questi temi: la diversità non è pericolosa, è fonte di arricchimento».
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