Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
Ingegner De Benedetti, sono novanta.
«Mio padre visse 99 anni e sette mesi, mia madre 98 e mezzo, mio fratello ha 92 anni e sta benissimo. Punto a un altro decennio».
Qual è il segreto della longevità? Dieta, moto?
«Non ho mai fatto nulla di sano. Ho sempre mangiato e bevuto quel che volevo, pure i superalcolici. Non ho fatto sport, tranne un po’ di sci. Ho pure fumato, anche se poi ho smesso».
Il segreto, allora?
«Essere in pace con sé stessi. E, naturalmente, l’amore».
Lei è innamorato?
«Sì. Nei miei primi sessant’anni ho avuto un padrone: il lavoro. Poi ho incontrato Silvia, e la prima volta non ci siamo neanche stati simpatici. Invece è successa una cosa che credevo impossibile: mi sono innamorato» […]
silvio berlusconi carlo de benedetti
Di Prodi lei diceva «non può governare, è sempre su un treno», e lui rispondeva: «De Benedetti è sempre su un rompighiaccio».
«L’Antartide, il mondo del silenzio, dove l’unico rumore è lo spezzarsi dei ghiacci, è uno dei due posti più belli del mondo».
Qual è l’altro?
«Tuamotu, Polinesia francese. Il paradiso terrestre».
Il suo giudizio su Prodi è sempre così severo?
«Gli riconosco di essere stato l’unico a battere Berlusconi. Ma allargare l’Europa a Est, a Paesi appena usciti dalle dittature e non ancora divenuti democrazie, è stato un disastro».
carlo de benedetti gianni agnelli
E il suo giudizio su Berlusconi?
«Uno straordinario uomo di marketing».
Qual è il suo primo ricordo?
«Sono vestito da figlio della lupa alle adunate del sabato. Ma non è una festa; è un obbligo. Ci incuriosisce; non ci coinvolge».
E le leggi razziali?
«Mio padre ebreo fu espulso dal partito, dov’era entrato per poter lavorare».
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cesare romiti carlo de benedetti
La fuga in Svizzera?
«Papà ce la presentò come una gita sul lago di Como. Per la prima volta in vita mia pranzammo al ristorante, Le tre barchette. Poi ci inoltrammo lungo una strada sterrata, sopra Cernobbio. Incontrammo una pattuglia di SS con il cane lupo, io tentai di accarezzarlo, mio padre mi diede uno strattone memorabile. Arrivammo a casa di una donna, che a pagamento aiutava gli ebrei a scappare».
Eravate soli?
«Con un cugino, sua moglie e i loro due figli. Mio padre si giocò con lui a pari e dispari chi dovesse passare per primo. Vinse mio padre. La donna fece un buco nella rete di confine, che era davvero una rete e passava nel suo giardino, e ci disse di scappare più in fretta possibile. I miei cugini furono presi e portati a Mauthausen. Lei fu scuoiata viva».
Scuoiata?
silvio berlusconi carlo de benedetti
«Sì, le cavarono la pelle. I nazisti uccidevano gli ebrei anche così, come gli animali. Lui sopravvisse, ma impazzì. Mio padre si prese cura di lui per tutta la vita».
E voi?
«Eravamo con molti altri ebrei, si sentivano tutte le lingue, polacco, ungherese. Ricordo la disperazione di coloro che, non avendo figli piccoli, furono rimandati indietro. Noi venimmo spediti in un campo per lo spulciamento: tutti nudi in cortile in un mattino di novembre, doccia gelata, per asciugarci solo la paglia. Campammo grazie ai brillanti che mia madre aveva nascosto nel busto. Senza sapere quanto sarebbe durata la guerra, e quindi fino a quando saremmo campati».
Andava a scuola?
«A Lucerna, senza conoscere una parola di tedesco. Imploravo mio padre di lasciarmi a casa. Poi ho capito di cosa è capace l’uomo, nelle circostanze più avverse. Dopo tre mesi, mio fratello e io parlavamo e scrivevamo in tedesco».
Come ricorda la liberazione?
«I giornali cominciarono a pubblicare le foto dei campi di sterminio, e nostro padre ci costrinse a ritagliarle e a incollarle su un album. Gli chiedemmo perché».
Cosa rispose vostro padre?
«“Perché un giorno qualcuno dirà che tutto questo non è successo”. E aveva ragione».
Com’era la Torino del dopoguerra?
carlo de benedetti eugenio scalfari
«Un cumulo di macerie, una povertà assoluta. Mancava tutto. Papà riuscì a procurarsi al mercato nero quattro pneumatici per la sua Aprilia. Ogni sera dovevo smontarli, portarli in camera da letto, alzarmi alle sei, e rimontarli. Ero il custode delle gomme, e questo mi rendeva orgoglioso. Mi iscrissero al San Giuseppe, perché era l’unica scuola con i vetri alle finestre anziché i cartoni».
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Eravate inquilini degli Agnelli, in corso Matteotti 26.
«Mai capito perché gli Agnelli, che certo non avevano bisogno dell’affitto, si erano messi estranei in casa. Oltre a noi c’era un’altra famiglia di ebrei, i Loria».
Quando vide Gianni per la prima volta?
carlo de benedetti elly schlein
«Una sera tornai tardi da casa di un amico, mi infilai nell’androne, e vidi scendere dall’auto una donna stupenda. Se non fosse blasfemo, direi che mi parve di vedere la Madonna. Era Anita Ekberg. La guardavo abbacinato, quando sentii un buffetto sulla guancia. Era Agnelli, che mi disse: va’, vai a farti una sega».
Lei della Fiat sarebbe divenuto amministratore delegato.
«Lavoravo nella piccola azienda di famiglia: Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili. Non un nome; una frase».
Il marketing non era ancora stato inventato.
«L’unico scontro con mio padre lo ebbi quando gli proposi di aprire un ufficio a Milano. Lui lo riteneva del tutto inutile. Gli dissi: io lo apro; se tra un anno non ho portato risultati, lo chiudo e mi cerco un lavoro. Poi comprai una scatola vuota ma quotata in Borsa, la Gilardini, e la fusi con la nostra azienda. Passammo da 50 dipendenti a 1.500».
[…]
LILLI GRUBER CARLO DE BENEDETTI - FESTIVAL DI DOGLIANI 2018
Anni dopo, lei divenne presidente dell’Unione industriali di Torino.
«Su proposta di Umberto Agnelli, con cui avevo diviso i banchi del San Giuseppe. A Torino comandavano i comunisti. Facevo riunioni segrete nottetempo con il responsabile delle fabbriche del Pci, Piero Fassino, che con molta onestà mi informava quando uno sciopero poteva essere revocato, e quando no».
Presidente di Confindustria era l’Avvocato.
«Mi chiese di scrivergli i discorsi. Un giorno a Villa Frescot entrò nel suo studio una ragazza rapata a zero. Era sua figlia Margherita. Lui si arrabbiò: “Che cazzo hai fatto?”. E lei: “Almeno ti sei accorto che esisto”».
È vero che Agnelli le propose di prendere il suo posto alla Confindustria?
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«Sì, ma rifiutai. Avevo 39 anni; dopo 4 anni di presidenza sarei stato un ex. Quel no lo stupì e innervosì moltissimo. Così si inventò Carli. Niente consultazioni di saggi, votazioni e tutta la procedura prevista dallo statuto: l’Avvocato fece entrare Carli, lo indicò come presidente, ci fu un grande applauso. Viveva come un re. Ma si portava dentro il tarlo del mio no. Così mi propose di fare l’amministratore delegato della Fiat».
E lei quella volta disse sì.
«A condizione di venire da azionista, non solo da manager».
La Fiat comprò la Gilardini. Ma lei durò solo cento giorni.
«Fu un’esperienza fortissima. Cominciai scontrandomi con la burocrazia che gestiva la Fiat. Chiamai il capo delle strategie, Rossignolo, e il capo dell’auto, Tufarelli. Alla fine del colloquio li licenziai».
Perché?
«Rossignolo diceva che l’auto non aveva futuro in Europa, bisognava fabbricarla in Nord Africa».
Be’, è finita così.
«Ma no, le macchine migliori si fanno tuttora in Germania. Tufarelli non amava l’auto, e non la capiva. Veniva dall’Olivetti, come Volponi: Umberto Agnelli aveva messo a capo del personale della Fiat un filosofo comunista. Non poteva funzionare. Io presi Ghidella dalla Riv Skf, e Ghidella ebbe un successo clamoroso. Lanciare la Uno a Cape Canaveral fu un colpo di genio».
Ma Romiti lo fece fuori.
eugenio scalfari carlo de benedetti
«Quando intuì che avrebbe preso il suo posto. Così la Fiat affondò, finché non fu salvata da Marchionne».
Di lei dissero che volesse scalare la Fiat.
«Con l’aiuto della lobby ebraica. Che, ammesso esista, non è generosa… Sciocchezze da ufficio stampa. In realtà, avevo detto all’Avvocato che c’erano 60 mila operai di troppo. Lui sorrise: “E dove sono? Sdraiati nei corridoi?”. Risposi che erano nei conti della Fiat».
Era il 1976, il tempo delle Brigate Rosse.
«Agnelli andò a Roma a parlare con Fanfani. Tornò e rispose che non si poteva fare. Così me ne andai».
Negli Anni 80 le riviste americane avevano in copertina Agnelli, Berlusconi, Gardini e lei.
«Ci definirono i condottieri».
eugenio scalfari carlo caracciolo carlo de benedetti
La Fiat è diventata un’altra cosa, Berlusconi è uscito di scena, Gardini si è suicidato, e pure lei, mi perdoni, ha fallito. L’Olivetti non esiste più.
«L’Olivetti è stata un colossale successo. Quando Visentini mi chiamò, mi disse: “Non guardi i bilanci, altrimenti non viene. Ma lei ha voglia di rivincita, e Olivetti ha grandi potenzialità”. Entrai che faceva macchine da scrivere; passammo all’elettronica, poi all’informatica, diventando il secondo produttore al mondo di personal computer dopo Ibm. E siamo stati l’unica azienda informatica a diventare un operatore telefonico. Omnitel fu venduta a Mannesmann, contro il mio parere, per oltre 14 mila miliardi di lire».
EZIO MAURO - EUGENIO SCALFARI - CARLO DE BENEDETTI
Resta il fatto che Olivetti non esiste più.
«Ma Telecom Italia dovrebbe chiamarsi Olivetti, visto che Colaninno se la comprò con quei soldi. Io però ormai ero fuori».
È vero che rifiutò un’offerta del giovane Steve Jobs?
«È il 1978. Arrivo a Cupertino, al centro ricerche Olivetti. Sono esausto per le riunioni, il fuso. Elserino Piol mi propone di visitare un garage dove due capelloni con i jeans sdruciti stanno lavorando a un minicomputer: erano Jobs e Wozniak. Jobs mi propone di prendere il 20% della loro azienda, per 20 milioni di dollari».
E lei?
«Dico: “Piol, cosa vogliono da noi questi due capelloni? Andiamo a dormire”. Se avessi accettato, oggi sarei trilionario. Come nei fumetti di zio Paperone».
SILVIO BERLUSCONI E CARLO DE BENEDETTI
Al tempo di Olivetti lei finì in carcere per le tangenti. Come andò?
«Scoppia Tangentopoli. Il mio avvocato Marco De Luca mi consiglia un incontro con Di Pietro. Dichiaro che mi assumo ogni responsabilità per quanto di illegale avessero compiuto i dirigenti Olivetti, sia per episodi a me noti, sia per altri a me ignoti. Evito così l’arresto».
Ma la arrestano a Roma.
«La pm Cordova emette due mandati di cattura: uno per Galliani, uno per me. La gip Iannini, la moglie di Bruno Vespa, fa sapere che, avendo un legame di amicizia con il gruppo Fininvest, non può pronunciarsi su Galliani; a maggior ragione la logica doveva valere per me, che di Fininvest ero un avversario. Invece il mio arresto viene convalidato. Il generale dei carabinieri comandante della Lombardia mi convoca in caserma a Milano alle 5 del mattino. Con uno stile che è ancora un retaggio dei carabinieri, mi riceve in alta uniforme: “Ingegnere, mi dispiace, ma devo arrestarla”. Mi caricano su una Delta, che parte a rotta di collo verso Roma».
carlo de benedetti otto e mezzo 5
Cosa ricorda di Regina Coeli?
«Tutta la procedura: la consegna delle stringhe delle scarpe e della cintura. La visita corporale. L’ispezione anale. Un’esperienza molto dura. Venne un cappellano a chiedere se avevo bisogno di conforto; risposi che non volevo essere confortato, volevo uscire. All’ora del tramonto, i carcerati intonarono cori: stavano parlando con le loro donne, che fuori da Regina Coeli risposero ai canti. Valeva la pena passare un giorno in galera solo per fare questa esperienza. Ovviamente fui poi assolto».
Ma venne condannato per l’Ambrosiano.
«In primo e in secondo grado, per essere poi assolto in Cassazione. Fu Francesco Micheli a parlarmi dell’opportunità di investire nell’Ambrosiano; ma mi accorsi subito che qualcosa non andava. Organizzai un pranzo a casa mia a Roma con il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, e con il cardinale Silvestrini, che stava alla segreteria di Stato. Gli chiesi cosa sapesse di Calvi. Alzò gli occhi al cielo: in Vaticano l’unico a sapere era Marcinkus. Ebbi paura. Calvi era un uomo finito, e dietro di lui si intravedevano i mascalzoni che l’avrebbero ammazzato».
CARLO AZEGLIO CIAMPI - CARLO DE BENEDETTI - MARIO MONTI
E uscì dall’Ambrosiano.
«I magistrati sostennero che, per via dei soldi incassati in cambio delle mie azioni, io fossi una delle cause del fallimento della banca. Seppi poi che quella tesi assurda era stata combinata dall’alto, dal direttore di Assolombarda Kraus che era stato convinto da Romiti».
È un’accusa grave, cui Romiti non può più rispondere.
«Non è colpa mia se Romiti non c’è più. Ma a Torino tutti sapevano che Romiti ha fatto di tutto per distruggermi».
RODOLFO, CARLO, EDOARDO E MARCO DE BENEDETTI
Quindi è stato Romiti, non Berlusconi, il suo vero grande avversario?
«Certo. Berlusconi è stato mio avversario per questioni imprenditoriali. Ad esempio nella gara per le frequenze per il secondo operatore di telefonia mobile. Due cordate: da una parte noi dell’Olivetti, alleati con Bell Atlantic; dall’altra Fininvest e Fiat. Non avevamo la minima idea di quanto offrire, non c’erano precedenti. Decidiamo di offrire 700 miliardi. Atterro a Pechino e ho un presentimento: chiamo Caio e gli dico di alzare l’offerta a 770. Berlusconi e gli Agnelli avevano offerto 707. Di sicuro potevano contare su una spia all’Olivetti. E avevano indicato una cifra beffa».
JOHN ELKANN CARLO DE BENEDETTI
Fu l’ultimo atto del governo Ciampi nel 1994.
«Ebbi così la soddisfazione di vedermi assegnare le frequenze da Berlusconi, che delegò Tatarella. Un fascista, ma un gentiluomo».
Di Cuccia che ricordo ha?
«Non ha mai creduto nei mercati. Difendeva con sublime cinismo il suo monopolio; nell’interesse esclusivo di Mediobanca, senza alcun tornaconto personale, visto che viveva come un frate. Un monaco della finanza».
E il bilancio dell’avventura a Repubblica?
«Straordinario. Entrai nell’Espresso quando era in grande difficoltà. Poi rilevai le azioni di Scalfari e parte di quelle di Caracciolo. Con Monica Mondardini ed Ezio Mauro abbiamo composto un trio affiatatissimo».
carlo de benedetti urbano cairo
Chi scelse Mauro come direttore?
«Caracciolo e io. Il problema era come far credere a Scalfari che lo stesse scegliendo lui. Lo chiamammo. Lui ci propose tre nomi. Il primo era Anselmi. Il secondo Mauro. Appena sentimmo il nome che avevamo deciso, lo interrompemmo: “Eugenio, allora è fatta, sarà Mauro”, che era direttore della Stampa. Agnelli mi telefonò e mi riempì di improperi: “Per colpa sua la Stampa uscirà non firmata, senza un direttore!”».
I suoi figli però Repubblica l’hanno venduta. Che rapporto ha con loro?
«Eccellente con tutti, in particolare con il più giovane, Edoardo, il medico. È andato in pensione, si è fatto crescere barba e capelli grigi, pare Georges Moustaki, e gira il mondo».
GAD LERNER IN VACANZA CON CARLO DE BENEDETTI
Come trova Giorgia Meloni?
«Il peggio del peggio. Ha messo insieme ministri trucidi come Salvini, ideologici come la Roccella, e incompetenti, come quasi tutti».
Ma ha vinto le elezioni. Ed è ancora forte nei sondaggi.
«La Meloni è il frutto dell’impoverimento subìto dall’Italia in questi vent’anni. Ma di consenso ne ha sempre meno».
E la Schlein?
«Una brava donna, di buoni principi. Ce la mette tutta. Ma non è un leader che trascina il popolo. Non la vedo a capo di un governo di sinistra».
lilli gruber carlo de benedetti
In America chi vince?
«Temo Trump. Sarebbe un bel guaio per il mondo. Anche se finirebbe subito la guerra in Ucraina».
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Quali sono le persone più intelligenti che ha conosciuto nella sua vita?
«Quelle che più mi hanno impressionato sono state Papa Wojtyla e Shimon Peres. A Wojtyla feci i complimenti perché aveva abbattuto il comunismo. Mi rispose: “Il comunismo era un albero marcio; io mi sono limitato a scuoterlo. Il vero problema è l’Islam. Il cristianesimo è la religione dell’amore”, e qui Wojtyla fece un gesto come a dire vabbè, lasciamo perdere; “l’Islam è la religione dell’odio”. Era più di trent’anni fa, le assicuro che all’epoca pareva una profezia assurda. Invece aveva ragione».
CARLO DE BENEDETTI AI TEMPI DELLA OLIVETTI
E Shimon Peres?
«Mi disse: “Hai mai fatto caso che quasi tutti gli ebrei sanno suonare il pianoforte o un altro strumento? E sai perché? Perché è una cosa che non dovrà mai passare un metal detector”».
Cosa pensa di Israele oggi?
«Ha commesso un fallo di reazione. Il pogrom del 7 ottobre è stato un crimine orrendo; ma Gaza è stata una reazione eccessiva».
Ha paura della morte?
«No. Tutto finisce. Siamo come i fiori, che nascono e appassiscono. L’aldilà non esiste, io credo nel Dio di tutti che è la Natura».
Lei è stato criticato per aver portato la residenza in Svizzera. Dove paga le tasse?
«Ho entrambi i passaporti, e ho pagato le tasse in Italia e in Svizzera. Ora però mi sono trasferito nel principato di Monaco».
Questo mi delude.
«Perché? Ho avuto un’embolia polmonare, ho bisogno di vivere al mare, e Montecarlo è un posto accogliente, dove c’è tutto e non ci si annoia. Si possono fare cose per gli altri e lasciare tracce di sé anche in altri modi».
Come lascerà una traccia di sé?
«Con la Fondazione Tog. Abbiamo eretto un ospedale allegro. Vedere questi bambini imparare a nuotare o a disegnare, vedere la riconoscenza dei loro genitori, e questo mi rende molto fiero».