Filippo Facci per “Libero quotidiano”
Il nuovo superprocuratore antimafia è stato eletto dal Csm grazie al solito giochino di correnti. La cosa più facile, ora, sarebbe ricordare che le superprocure furono invenzioni di Giovanni Falcone (realizzate col ministro Claudio Martelli) alle quali a suo tempo si opposero le stesse correnti e la peggior magistratura politicizzata di destra e di sinistra.
Tra il 1990 e il 1991 non si contano gli articoli dell'Unità, del Giornale, le puntate di Samarcanda, le posizioni del movimento «Proposta '88» (corrente dello stesso Falcone) e soprattutto di Magistratura Democratica che dell'eroe di Capaci scrissero cose orribili.
Anche lo sciopero dei magistrati del 2 dicembre 1991 fu indetto «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», come sintetizzo Liana Milella del Sole 24 Ore. Giacomo Conte del pool antimafia di Palermo aveva definito la Dia «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti», mentre Magistratura democratica, in quel dicembre 1991, denunciava un generico «disegno di ristrutturazione neo-autoritaria» mentre in una pubblica lettera (con sessanta firme, comprese quelle di Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino) definivano la superprocura strumento «inadeguato, pericoloso e controproducente».
LA VITTORIA
La seconda cosa facile, ma neanche troppo, sarebbe osservare che Falcone fu tanto anticipatore quanto gli strumenti da lui creati appaiono oggi obsoleti: grazie a essi la battaglia contro la Mafia è stata sostanzialmente vinta, ma questo è un fatto innominabile. Lo Stato, ferito a morte e delegittimato da Mani pulite, riuscì a concertarsi tra ministeri e procure sino ad abbattere la mafia per com' era stata conosciuta.
giovanni falcone paolo borsellino
I capi di Cosa nostra e i loro sottoposti furono catturati, la struttura gerarchico-militare mafiosa fu demolita, ogni «cupola» fu dissolta al pari di un esercito di killer, estorsori, picciotti e prestanome rimasti disoccupati dopo ingenti sequestri di armi e droga e patrimoni economici e immobiliari.
Non ci furono più bombe, stragi e omicidi seriali: un conforto che solo qualche nostalgico può dimensionare oggi a «cambio di strategia», anche sedi fatto la presa sul territorio si allentò, i traffici internazionali calarono o passarono in prevalenza a organizzazioni non siciliane, i presunti eredi della mafia isolana intrapresero altro mestiere o si riconvertirono a riciclaggio, finanza, sanità ed energia eolica (in sostanza appalti), al pari di criminalità organizzate estere o anche italiane che oggi superano Cosa nostra nei primati dell'illegalità.
Molti processi antimafia, negli ultimi trent' anni, si sono ridotti ad archeologie giudiziarie votate a delegittimare lo stesso Stato o i pezzi dello Stato (come i carabinieri del Ros) che vinsero la battaglia finale: un'operazione reiterata, ma che il tempo ha dichiarato fallita.
La terza cosa, da dire, non è facile per niente: anche se le prime due fungono da scivolo logico.
La citata superprocura antimafia e l'antimafia in generale, così come erano state disegnate e sono poi cambiate e degenerate, non servono più a niente per non dir di peggio. Sono strumenti come l'Onu, come la Fao: servono essenzialmente a distribuire potere, poltrone e denaro.
Giungendo - nel caso - a fare danni alla causa per cui nacquero. L'antimafia è diventata una mafia, un'emergenza fattasi istituzione, e dirlo è difficile: perché occorre resistere all'accusa di offendere chi per combattere la mafia sacrificò la vita. Ma bisogna dirlo lo stesso. L'Antimafia, senza la mafia che fu, è una forma di populismo che resta fuori dallo Stato di diritto come noi fingiamo di non sapere, ma in Europa sanno benissimo.
L'esempio più semplice riguarda la commissione parlamentare antimafia, che dal 1962 macina carta ed è ancora ufficialmente un organo della Procura generale presso la Cassazione: dovrebbe coordinare indagini e investigare per conto del ministero dell'Interno, ma non fa nulla del genere. In concreto non fa niente. Allo stesso modo - e qui si rischia il linciaggio in piazza - non servono a niente le associazioni antimafia che sul piano «sociale» vengono sovvenzionate dai ministeri dell'Interno e dell'Istruzione. Servono solo a tenere occupati dei nullafacenti.
Ma ancora più difficile, attenzione, è sostenere che l'Antimafia sia diventata una vero e proprio danno per il Paese, anche se nemmeno Mario Draghi e Marta Cartabia oserebbero pronunciare frasi del genere. Il certificato richiesto alle aziende che partecipano a un appalto pubblico, per cominciare, è un inferno burocratico da non credere.
ROVINATI NELL'ATTESA
Quelle che chiamano «misure di prevenzione», estese anche alle indagini sulla corruzione, si traducono in una magistratura cui basta niente per confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, che, come sappiamo, non arriva mai: basta la famigerata e discrezionale «pericolosità sociale» perché l'amministrazione giudiziaria e cioè le procure (che a loro volta delegano a chi vogliono) mandino in malora patrimoni e aziende che in maggior parte sono andati appunto in rovina e basta, sempre in attesa di una sentenza.
A un certo punto si decise di mettere in mezzo le prefetture e di centralizzare il tutto in quell'altro mostro burocratico che si chiama Agenzia nazionale per i beni confiscati (a Reggio Calabria) dove parcheggiare anche un sacco di personale senza particolare vocazione professionale: centinaia di dipendenti «antimafia» che assai spesso, di aziende e gestione delle stesse, sapevano e sanno nulla.
L'Agenzia il più delle volte è una sorta di cimitero in cui tutto muore o deperisce. E alla lunga questa pervasiva antimafiosità è diventata una ragione in più per non investire al Sud (ma anche più a Nord) e basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l'antimafia frattanto ha ucciso tutto: le interdizioni l'hanno escluso dalle commesse pubbliche, i fidi bancari sono stati bloccati o ritirati, i lavoratori se ne sono andati da un pezzo, per non parlare della reputazione. E sono le procure antimafia all'origine e al vertice di tutto questo.
Per confiscare basta niente. Siamo in piena cultura del sospetto. Esempi non ne facciamo, sono troppi, ma basta il famoso caffè preso affianco a chi abbia la fedina penale non immacolata.
Nell'inferno della prevenzione puoi precipitare anche solo per «conoscenza» (presunta) di tizio o caio, tanto poi ci sarà - un giorno - un bel processo. Un giorno, sì.
ALLARME CONTINUO
La netta sconfitta di Cosa Nostra, dei vertici di certa Camorra, nonché il dissolvimento della Sacra Corona Unita, no, non hanno fermato questo sistema, non l'hanno ridimensionato o adeguato alla realtà. C'era una retorica e un sistema di potere che andavano mantenuti.
È sempre «allarme», tensione da non abbassare, come se l'emigrazione della criminalità ad altri luoghi e modalità non fosse normale, come se la fine dell'emergenza dovesse coincidere con l'estirpazione del male dal cuore umano. È così che la politica più ignorante è diventata neo-alleata dell'Antimafia e dei suoi fantocci privi di meriti effettivi, fermi ad archeologie giudiziarie regolarmente sbugiardate.
Ma stiamo parlando di un moloch culturale e giudiziario che neppure un Mario Draghi potrebbe anche solo menzionare senza che scoppi un finimondo, ciò che appunto dovrebbe finire un mondo: quello della più inutile delle commissioni parlamentari, quella di una legislazione emergenziale fuori da ogni parametro europeo, quello di una macchina burocratica che sequestra e tritura le aziende e ammazza l'economia, quella delle superprocure che non hanno più bisogno di essere super, quella che ammette e disegna leggi inesistenti (mai passate dal Parlamento) come quel mostro giuridico chiamato concorso esterno in associazione mafiosa. Marta Cartabia ha provato con la giustizia ordinaria, e si è presa una sportellata in faccia. Con l'Antimafia le andrebbe anche peggio.
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