“LE SERATE A CASA DI MARTIN SCORSESE SONO L'UNICA OCCASIONE SOCIALE ALLA QUALE NON RINUNCEREI MAI” – FRAN LEBOWITZ, LA “FANTASTICA BISBETICA” DI NEW YORK, RACCONTA DEI CINEFORUM A CASA DEL REGISTA: “È COME ENTRARE AL TEMPIO O IN UNA CHIESA. DURANTE IL FILM NON SI PARLA. HO PROVATO A BISBIGLIARE UN PAIO DI VOLTE, IL GELO CHE HO RICEVUTO IN RISPOSTA È STATO PEGGIO CHE SE MI AVESSERO CACCIATO FUORI. ALLA FINE SI POSSONO FARE DOMANDE, MA NON BISOGNA DARE L’IDEA DI NON AVERCI CAPITO NIENTE PER DUE MOTIVI…”

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Estratto dell’articolo di Giulio D'antona per “la Stampa”

 

fran lebowitz martin scorsese 7 fran lebowitz martin scorsese 7

Il leggendario critico cinematografico statunitense Roger Ebert una volta ha detto, parlando di chi ha scelto i film come professione: «Non siamo mai cresciuti. La nostra è una forma di ossessione patologica adolescenziale, che non ci ha mai abbandonato e non ci abbandonerà mai».

 

Una di quelle ossessioni che, trasposte sullo sfondo di un panorama più vagamente adulto, potrebbero somigliare alla passione religiosa. «È come entrare al tempio, o in una chiesa», racconta Fran Lebowitz parlando delle serate a casa del suo amico fraterno Martin – o, meglio, "Marty" – Scorsese a guardare e riguardare vecchi film. «Prima che la pellicola inizi, lì, nella saletta di proiezione, tutti stanno già discutendone. Come se lo avessero appena visto. Sono film che la maggior parte dei convenuti conosce a memoria». I convenuti, solitamente, sono un gruppo di accaniti cinefili di vecchia o vecchissima data.

 

 

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[…] «Arriva Marty e a quel punto il film dovrebbe incominciare. E invece no. Si mette a discutere anche lui: si infila nelle conversazioni come se sapesse sempre esattamente cosa è appena stato detto, come se avesse sempre una risposta memorizzata».

 

[…] «Durante il film non si parla. Ho provato a bisbigliare un paio di volte, il gelo che ho ricevuto in risposta è stato peggio che se mi avessero cacciato fuori». C'è chi può permettersi di fare eccezione, naturalmente: «Marty ogni tanto indica qualcosa sullo schermo, o spiega una scena».

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[…]

«Si possono fare domande, è concesso», continua Lebowitz nel suo racconto. I film che guardano sono solitamente capolavori neorealisti, monoliti dell'epoca d'oro della nuova guardia giapponese, o imprescindibili pietre angolari appartenenti al pre-sonoro. «Ma non bisogna dare l'idea di non averci capito niente. Per due motivi: il primo è che tutti la prenderebbero come un'offesa personale; il secondo è che passerebbero il resto della serata a rispiegare tutto il film da capo». Se la fede implica l'esistenza di un mistero, di un atto di cieca aderenza, il cinema è invece l'esaltazione della spiegazione.

 

Percorrendo l'esistenza di Scorsese, dietro le quinte dell'immaginazione del grande cineasta, è rivelato quanto tutta la sua produzione artistica si fondi su basi tanto solide da avere più attinenza con il processo scientifico che con quello religioso. È vero: ha sempre inseguito Dio, ma come si cerca di comprendere la fisica che tiene in equilibrio il mondo, piuttosto che abbracciandone l'evanescenza.

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E se c'è qualcosa in cui ha sempre creduto ciecamente, è la magia che porta le immagini sullo schermo e che fa credere agli spettatori l'impossibile. […] «Non c'è niente di più prezioso delle serate a casa di Marty», sostiene Lebowitz con un sorriso furbo e beato. «È un rituale per iniziati. La migliore festa dell'ultimo dell'anno. L'unica occasione sociale alla quale non rinuncerei mai». È un atto di fede, lo stesso che Scorsese condivide con chi è disposto a credere in lui.

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