Estratto dell’articolo di Susanna Schimperna per “Specchio – la Stampa”
Un ictus che ha lasciato pesanti tracce, una situazione politica e sociale che tanto a livello nazionale quanto mondiale lo disgusta. Ma […] la sua memoria non assume mai coloriture nostalgiche, il suo pensiero è totalmente ottimista e propositivo […]: «Se non posso cambiare il mondo, voglio almeno renderlo più abitabile».
Giovanni Brass detto Tinto, novantun anni il 26 marzo, continua ad essere «tranquillamente ateo» e «convintamente anarchico». A infischiarsene di chi ancora lo condanna per il suo cinema, considerato tra l'erotico e il pornografico.
A sorridere delle accuse di aver tradito le promesse degli esordi, voltato le spalle a quei grandi scomodi temi che aveva saputo portare sullo schermo con tanta originalità, libertà e un umorismo contiguo al grottesco – la miseria del potere, la difficoltà di integrarsi per chi abbia una personalità non omologata, la follia, la violenza, il bigottismo, la repressione, la condizione subalterna delle donne –. Impegnato tuttora in una difficile opera di recupero fisico, aiutato quotidianamente dalla moglie Caterina Varzi […] A proposito di guerre, c'è una novità. La realizzazione di un film antimilitarista che a Tinto sta molto a cuore.
Maestro, che bella notizia. Lei festeggia i suoi 91 anni corteggiato dai produttori, in particolare uno con il quale sembra che una sua sceneggiatura del 2008 possa finalmente diventare un film: Ziva, l'isola che non c'è. Si tratta della storia di una donna che vive come guardiana di un faro in un'isola della Croazia e che, durante la II Guerra mondiale, accoglie i soldati e li convince a disertare, offrendo loro amore e sesso. Perché non fu realizzato all'epoca, questo film?
«Perché non riuscii a trovare i finanziamenti. Il mio era un inno contro la brutalità della guerra […] ma i produttori mi dicevano "Tinto, a chi vuoi che interessi un film sulla guerra?". Io, antimilitarista e pacifista da sempre, avevo invece intuito che presto il mondo si sarebbe trasformato in una polveriera, e riponevo la mia speranza pacifista nella capacità femminile di mediare i conflitti».
Crede a una sorta di naturale propensione femminile alla nonviolenza?
«Sì. La nonviolenza è prerogativa femminile. Lo stesso Gandhi rivendicò più volte la disobbedienza civile come pratica acquisita dalle donne. Ma nell'esercizio del potere accade purtroppo che le donne rimangano intrappolate in modelli di leadership maschili, perché il Potere non ha genere e rimane, nella mia visione, il male assoluto».
Donne. Molti, nei suoi film dichiaratamente erotici hanno visto nella figura femminile non una donna senza tabù, ma un oggetto plasmato sulle fantasie maschili…
«No e ancora no. Io rivendico per la donna non soltanto il ruolo di musa, ispiratrice e complice, ma insisto sull'imprescindibilità della sua libertà. Se una donna non è libera e capace di vivere pienamente la propria sessualità, nemmeno il suo compagno può provare piacere».
tinto brass angelo ciccio nizzo
Fino a un certo punto lei è stato considerato un regista geniale, un autore disturbante capace di affrontare temi come la follia, la reclusione e il potere da un punto di vista radicale, anarchico. Poi, eccola diventato, per molti, un semplice regista semipornografico. Le dà fastidio questa etichetta?
«Non ho sofferto per essere stato così malvisto, anche perché in cambio sono stato molto amato dal mio pubblico. Non mi fa piacere però che non si sia capito che l'erotismo dei miei film veicola una forte critica politica e sociale. Sono colpevole di aver applicato il culto estremo del sublime là dove nessun moralista vorrà riconoscerlo: all'altezza del culo. Ma verrà il giorno in cui il cinema italiano pagherà il suo debito per aver finto che io non esistessi».
Come le sembra il mondo artistico, oggi? Vede personaggi interessanti?
«Si è precipitati nella mediocrità perché nessuno si assume più il rischio della propria creatività, individualità e diversità. Non ci sono più opere, ma prodotti. Ci si allinea al potere».
Lei di rischi se ne è assunti molti. Ribelle fin da ragazzino, più volte scappato di casa, in conflitto con un padre fascista.
«Un giorno, per punizione, mi portò in un manicomio e mi lasciò lì qualche giorno. Aveva 13 anni. Ero l'unico adolescente tra uomini adulti, e ho passato quei giorni a chiedermi quali fossero le mie colpe. Un'esperienza che ha profondamente influenzato i miei film, in cui c'è una feroce critica alla logica repressiva, disumana dei manicomi. Ero diventato amico di Basaglia e da lui ricevevo materiale di prima mano, che poi riversavo nelle sceneggiature: in particolare in Dropout, 1970, e La vacanza, 1971».
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Non ha mai avuto paura di rischiare anche sul fronte economico, giusto?
«[…] La leggenda vuole che sia sempre stato agiato, ma non è affatto vero. Da quando fui mandato via di casa fino al successo di Salon Kitty ho vissuto una vita molto modesta, con momenti di vere ristrettezze. Anche con la censura e i produttori i rapporti sono sempre stati difficili: di trenta film realizzati, ventinove sono stati censurati. Ho trascorso la maggior parte della mia vita nei tribunali».
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Nei suoi film trionfa un eros che non conosce senso del peccato, rimorso o pentimento. E nella realtà? Come vede i rapporti tra uomini e donne?
«Premettendo che scandagliare l'universo erotico vuol dire per me cogliere le infinite sfumature dei rapporti di coppia e quindi riflettere sul senso della vita, penso che mai come oggi le relazioni siano state complicate, perché seguono lo schema dei prodotti di consumo ed è quindi difficile costruire legami gioiosi e stabili».
Le donne dei suoi film sono allegre, sensuali, molto intraprendenti e prive di vergogna: ma tabù e senso di vergogna non servono ad accendere il desiderio, o è un luogo comune?
«Un luogo comune. Servono piuttosto a imporre ordine e disciplina, che a me, anarchico, provocano repulsione».
Il suo parere sui social e l'intelligenza artificiale?
«Con i social sono cresciuti gli spazi di libertà, ma sono diminuiti gli spazi dell'espressione creativa. Tutti sono portati a pensare, agire, sognare nello stesso modo, con la conseguenza di un inesorabile analfabetismo del gusto, degli affetti, del desiderio. […]».
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