Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera”
Di cose spiacevoli Marilena Natale, giornalista casertana sotto protezione dal 2017 per le minacce da parte del boss casalese Francesco Sandokan Schiavone, se ne è sentita dire molte, ma questa l'ha colpita particolarmente.
«Stavo cercando casa a Formia per l'estate e ne avevo trovata una che poteva andare.
Ma quando, dopo aver definito i dettagli, ho detto al proprietario che ho la scorta dei carabinieri, specificando anche che sono una giornalista e non una collaboratrice di giustizia, quello ha cambiato idea. "Sa, gli altri condomini potrebbero impressionarsi", mi ha detto. Mi sono cadute le braccia. Ho lasciato perdere, ma è mortificante».
Sulla sua pagina Facebook, dove ha raccontato la storia, Marilena Natale, ha ricevuto una valanga di messaggi di solidarietà e anche molte offerte di case da parte di abitanti di Formia indignati per il comportamento del loro concittadino. «Ovviamente ormai lì non posso andarci più, sarebbe pericoloso. Ma mi chiedo: a Formia si è stabilita gente che si chiama Bardellino, Giuliano, Mallardo. I più grossi nomi della storia della camorra. E alla fine il problema sono io perché ho la scorta dei carabinieri? Veramente non ci sono parole».
Che poi lei Marilena Natale - originaria di Aversa, quasi cinquanta anni, collaboratrice di Piuenne News , notiziario di una emittente televisiva locale - la scorta nemmeno la vorrebbe. «I quattro carabinieri che mi proteggono hanno due figli ciascuno. Otto bambini e ragazzi che un giorno, Dio non voglia, potrebbero trovarsi orfani perché il padre doveva difendere me? No. Non sarebbe giusto.
Io vorrei soltanto che la giustizia fosse veloce, che i processi si concludessero senza rischiare prescrizioni . Questo vorrei, non la scorta».
Invece deve averla, perché la condanna che pesa su di lei è assolutamente inequivocabile. «Fu intercettato un colloquio in carcere tra Sandokan , ( condannato in via definitiva all'ergastolo, ndr ) e due suoi figli che gli raccontavano dei miei pezzi contro il clan. E lui fu molto esplicito: fece con la mano il segno della pistola e puntò le dita alla testa». Una condanna a morte. «In tre giorni mi fu assegnata la scorta. Il tempo che la polizia penitenziaria informasse la Procura antimafia. Non aspettarono un minuto in più. Avevo portato il cane dal veterinario: vennero a prendermi lì».
Da allora la giornalista ha continuato a fare il suo lavoro, raccontando le realtà di paesi come Melito, Caivano, San Cipriano, Casal di Principe. Storie di quotidiane infiltrazioni nel tessuto civile, nelle amministrazioni locali, nelle attività imprenditoriali. «Quando andavo a scuola erano gli anni della guerra tra Cutolo e Bardellino, e al mio paese ogni mattina vedevo una macchina bruciata, una vetrina fatta saltare con una bomba, un tratto di strada transennato perché c'era stato un omicidio. Fu allora che decisi che nella vita mi sarei occupata di capire e raccontare queste cose. Ora si spara molto meno, ma loro esistono ancora, Anzi, sono molto più forti, e si prendono la nostra vita in altri modi».
Come con la Terra dei Fuochi.
«Io quei posti li ho visti. Ma ho voluto fare anche un'altra cosa, ho voluto vedere le conseguenze sulle persone».
Una mattina andò al Pausilipon, l'ospedale dove sono ricoverati i bambini malati di tumore. «E lì ho incontrato Aurora, che ha un cancro al cervello. Aveva solo il papà, che non poteva seguirla. Sono riuscita ad averla in affidamento e da sette anni sta con me. Un giorno scriveremo un libro sulle nostre storie».
Intanto ha un progetto più a breve termine:
«Sì, ho deciso che festeggerò i miei 50 anni con un brindisi davanti alla villa confiscata a Schiavone».