Estratto dell’articolo di Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
Professor Vittorino Andreoli, lei sostiene che tutti possiamo avere un momento in cui potremmo uccidere. Lei questo momento l’ha avuto?
«Ho avuto l’istinto di ammazzare un collega psichiatra, uno che contava, e che molestava una dottoressa che lavorava per lui e mi aveva chiesto aiuto: era angosciata perché lui la toccava, la convocava solo per molestarla. E lei era terrorizzata: non voleva concedersi, ma aveva paura di perdere il lavoro. Mentre lo raccontava, ho sentito la pulsione omicida perché lo psichiatra dovrebbe invece aiutare le persone».
Lei è celebre anche per non aver mai legato un malato in 50 anni di mestiere: come ha fatto? E perché i suoi colleghi ancora oggi li legano?
«Quando trentenne, nel ‘71, divenni primario dell’Ospedale Psichiatrico di Marzana, a Verona, dissi a medici e infermieri di non legare più i malati gravi, ma che se avessero avuto bisogno, io sarei arrivato in cinque minuti.
Contavo sul fatto di conoscere bene la farmacologia dopo le esperienze all’Istituto Farmacologico di Milano e in America.
La mattina dopo, la caposala mi aspettava agitatissima, dice: venga, venga, un malato sta rompendo tutto, è pericoloso. Salgo, sento un rumore terribile in una stanza: urla, oggetti spaccati, bam bam.Fuori, tutti gli infermieri e i medici di turno. Dico alla caposala: apra la porta. Lei rimane ferma con la chiave in mano. L’infermiere più anziano mi fa: prof, conosco suo padre, la prego, non lo faccia».
La racconta come una scena da gladiatore col leone.
«Entro e vedo tutto divelto, il lavabo per terra, spaccato. Al che, inizio a rompere tutto quello che non era ancora rotto. Prendo il lavello o e bam bam, lo sbatto e risbatto per terra. Il malato si calma. Mi guarda. Io continuo. Lo ammetto: rompere mi dava una soddisfazione incredibile. Alla fine, prendo il malato sottobraccio, lo porto nel mio ufficio, gli dico di non rompere mai più niente fino al mio arrivo alle otto del mattino e lui così fece. Dopo, feci raccogliere i mezzi di contenzione e appiccai un falò in giardino. Sentii un piacere quasi fisico. Da allora, mai un malato mi ha dato uno spintone».
La percepivano come un fratello di follia?
«Sentivano che io a loro volevo bene. Se stabilisci una relazione, non hai bisogno di legare un malato. I miei collaboratori non l’hanno più fatto e nessuno ha più rotto niente.Poi, per controllare le pulsioni, servono i farmaci. Ma tuttora, l’80 per cento dei malati viene legato: la psichiatria è in grave crisi perché bisogna essere prima umani e poi psichiatri».
(…)
I social hanno cambiato il funzionamento del cervello?
«Certo. È impossibile che uno che vive per ore della logica meccanica di Internet sappia usare la logica della mente, dei sentimenti. Ma il mondo è in mano a imbecilli da diagnosi psichiatrica».
Faccia nomi e diagnosi.
«Per non prendere querele, dico solo che uno che vuole portarci nello spazio o ibridarci col robot è un pazzo totale e incapace di affettività: un Asperger. E un altro, quello che crea mondi alternativi, è un oligofrenico: significa che ha poco cervello».
Fra baby gang e omicidi per futili motivi, vede un aumento dei disturbi psichiatrici?
«La risposta è sì. Il malato mentale è uno che ha trovato un modo per vivere in una situazione in cui le frustrazioni superano le gratificazioni, cosa frequente in questo mondo dominato dal denaro, dove dilagano violenza e stupidità».
Un antidoto c’è?
VITTORINO ANDREOLI - BABY GANG VITTORINO ANDREOLI vittorino andreoli VITTORINO ANDREOLI VITTORINO ANDREOLI - LETTERA A UN VECCHIO
«L’unico sarebbe l’amore».