Domenico Quirico per “la Stampa”
Nei miti si esprime qualcosa di immutabile, una esperienza che il tempo non può cancellare. Sono composti di immagini, violente, nitide, esplosive che non servono a spiegare una situazione concreta, ma semmai a indicare la loro importanza straordinaria. Sono fatti di realtà ma anche di deformazione della stessa. La superstizione moderna. Per questo la politica li usa, danno talvolta legittimità anche a quello che non ha legalità, diventano falsità misteriose ed esaltative. I miti muoiono e devono essere sostituiti o affiancati a quelli nuovi per aggiornarli alle brutali trasformazioni della realtà collettiva.
Per questo in periodi di crisi e di tragedia, quando le abitudini normali sono sconvolte, quando a coloro che li vivono gli avvenimenti paiono come desolati campi di sofferenza senza segni di confine, il vuoto deve essere colmato. Il terreno perché sboccino nuovi miti è pronto.
La guerra in Ucraina è questa tragedia creatrice di nuovi miti. Nei due campi. Il primo esaltante mito fondatore che sta nascendo è quello ucraino. L'Ucraina, prima dell'aggressione russa, era un paese povero, con politici corrotti, oligarchi di serie B ma in perfetta sintonia ideologica con gli imbroglioni dell'altra parte della frontiera, una democrazia imperfetta, fragile. I suoi miti fondatori erano deboli.
Era uno dei paesi sudditi dell'impero sovietico che hanno scoperto di essere liberi un giorno guardando il telegiornale. La Russia in briciole si raggrinziva al di là di nuove frontiere. Gli ucraini per fortuna erano stati segnati "al di qua". Ma non c'era eroismo in tutto questo. Certo vibrava una storia antichissima e dolente di lotte contro invasori di tutte le fogge.
Ma un indipendentista recente, reazionario e antisemita come Stepan Bandera che lottò contro "la liberazione" da parte dell'armata rossa, è rifiutato come riferimento anche da molti ucraini. C'è la Grande Fame, la carestia omicida voluta da Stalin. Ma una tragedia subita non sempre è sufficiente. Poi i più grandi scrittori ucraini hanno usato il russo Ci vuole un fatto che segni un prima e un dopo, che spacchi il tempo storico, irrimediabilmente. I serbi lo hanno trovato in una sconfitta. Gli ucraini in una resistenza e in una vittoria.
Ecco. Quaranta giorni fa un annuncio in televisione di Putin: e tutto ciò che era non è più e comincia ciò che non era. È la guerra, barbarica e crudele. Ma anche una nuova condizione umana si forma, un mito esaltante e comune: abbiamo sconfitto la Russia, non ci siamo piegati. Circondati da un nemico implacabile, marciando sotto il fuoco, resistendo sopra e sotto la terra, la nazione è vissuta senza che nessuno sia sceso in campo accanto a noi.
La memoria mitica ingloberà tutto, diventerà racconto di una unica battaglia iniziata nel 2014: dentro ci sarà Maidan, evento finora divisivo e ora santificato e universale, e la guerra lenta, preparatoria nel Donbass.
La guerra degli otto anni sarà la sublimazione mitica della nazione. Che dà ordine al passato, al presente e tratteggia una visione eroica e tranquillizzante del futuro. Il mito giustifica la militarizzazione del Paese, della politica, del linguaggio, e fissa per sempre l'immagine del nemico, il russo invasore, premessa per una lettura totale di ogni realtà. Putin ha regalato agli ucraini un mito fondatore.
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Questa guerra è fatta di passioni torbide, feroci, esasperate. Ma anche rovescia tutte le idee, per ora è distruzione ma anche nuovo inizio. Non saremo più quelli di prima ma, in fondo, prima cosa eravamo? niente. Ascolto, con preoccupazione, amici ucraini che un mese fa erano schiacciati dall'angoscia e dai dubbi di esser di fronte al leviatano russo, che ora parlano di vittoria certa, di scavalcare i confini, di andare a prendere Putin nella sua tana.
La potenza omologante della guerra ha cambiato anche le persone. Zelensky un mese fa era, in Ucraina, un leader discusso, criticato, si scavava con efficacia in un passato pieno di vuoti, di metodi di governo ambigui. La potenza omologante del mito guerresco ne ha fatto il Churcill del ventunesimo secolo, un capo che zittisce governi, fa lezione ai parlamenti, mette in liquidazione l'Onu, ordina all'Occidente di seguirlo.
E la Russia? Prima di quaranta giorni fa un paese affollato da troppi miti fondatori. Li aveva nel corso della sua storia recente cancellati o aggiornati. C'è chi ne ha contati almeno quattro prima di quella del ventennio putiniano. Ad esempio la Russia di Pietro il grande e degli zar, arroccata intorno alla vittoria contro il genio militare di Napoleone.
Dal 1917 al 1989 il mito era la rivoluzione di ottobre, la cittadella assediata e invincibile del "proletari di tutto il mondo unitevi". Rafforzata di fronte al passare del tempo con il mito della vittoria contro il nazismo, che si estende su mezzo mondo, Ucraina compresa, un immenso arsenale di metafore. Ma il riferimento più che al "radioso avvenire" poi si volge al "glorioso passato''. Il moto era già liso, stanco.
La quarta Russia di Putin è per metà sovietica e per metà mistica, si proclama riscatto della umiliazione dell'89 e alternativa alla capitolazione spirituale di fronte all'occidente. Mito fragile, intricato come dimostra la precarietà dei simboli. Sfilano nelle parate militari le vecchie bandiere zariste con le aquile bicipiti a guardare est e ovest come domini rivendicati ma anche i rossi labari bolscevichi con la falce e il martello. Il sette novembre ormai dal 2004 è giorno feriale, non è più riferimento rivoluzionario.
È il giorno in cui nel 1941, con i tedeschi a un passo da Mosca, ormai sulla collina degli inchini, Stalin volle che la sfilata militare sulla piazza rossa si svolgesse normalmente, sfida e grido patriottico, non più rivoluzionario. Il nove maggio ora è la data fondatrice, la resa della Germania.
La memoria collettiva si cerca di incatenarla nei ceppi della Vittoria, dove tutto diventa trasfigurato e legittimo, anche Stalin e lo zarismo imperiale. Putin, vincitore mancato, aggressore criminale e isolato, ha bisogno di un nuovo mito. Sarà l'assedio dell'occidente, noi russi soli contro tutto il mondo, la pugnalata alla schiena dei traditori, dei nemici del popolo. Il mito assorbe gli errori, che diventano indispensabili manovre preventive, la crudeltà e i delitti invenzione dei nemici, l'ordine ferreo necessità gloriosa per sopravvivere.