Tiziana Lapelosa per "Libero Quotidiano"
La legge lo vieta. Eppure a chi non è successo di sentirsi rivolgere domande personali ad un colloquio di lavoro? Perché più che le competenze è spesso la vita privata che "fa" un lavoratore. Anzi, più che un lavoratore, un potenziale servo a bassissimo tasso di generatore di problemi futuri.
Altrimenti, che senso avrebbe chiedere: «Lei ha figli?». Oppure: «Lei ha intenzione di avere figli?». O ancora - tanto per rimanere nell'universo femminile che cerca lavoro in una società che ne offre poco, quale è l'Italia, e per quel poco che offre quasi bisognerebbe fare un pellegrinaggio a Lourdes per ringraziare - capita che venga chiesto «Ha qualcuno che la aiuta con i bambini?».
Non si sa mai, nel miracoloso caso si venga assunti, che quell'influenza o quel raffreddore del bambino non significhino un giorno di assenza dal lavoro. E la competenza? Chissenefrega. Succede, nel caso si venga presi in considerazione, che pure l'orientamento politico incida.
Certo, non viene chiesto su che simbolo si mette la "x" nella solitudine della cabina elettorale, ma si vira sulla più raffinata «Qual è il suo pensiero sulla legge x?», così da carpire l'orientamento del candidato al quale viene chiesto anche se «Risulta iscritto ad un sindacato?», che ne farebbe un lavoratore di quelli che si attaccano a qualsiasi cavillo legislativo pur di stare a casa, prendere lo stipendio in cambio di nulla. E, bisogna ammetterlo, è una tipologia che non manca di nutriti eserciti a rappresentarla.
Stage o contratto Che si tratti di stage, lavoro a tempo determinato o indeterminato, per non lasciarsi sfuggire proprio nulla dal potenziale futuro lavoratore, perché non chiedere pure «Di che nazionalità è?». Informazione che viola il Decreto legislativo (N ° 215 del 2003) che mette in atto una direttiva sulla "parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica". Ma che importa?
Non rispondere a certe domande, come pure quella nella quale si chiede «Quali problemi ha avuto con il suo precedente datore di lavoro?», è un po' come scavarsi la fossa per il classico "le faremo sapere" accompagnato da una stretta di mano (un tempo, oggi nemmeno quella), che vuol dire "ciao ciao". Ci si interroga pure su «Che tipo di lavoro svolgono i suoi genitori», magari pensando al fatto che, in caso di mancato stipendio, il poveretto, o la poveretta, possa sempre contare sullo stipendio dei genitori per tirare a campare.
Anche se nell'art. 27 del Codice per le Pari Opportunità fra uomo e donna c'è scritto che "è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale", non mancano situazioni in cui ci si interroga sulla vita sentimentale del candidato.
L'amore La domanda che precede quella sull'intenzione o meno di riprodursi, è la classica: «Lei è sposato/a, fidanzato/a?» accompagnata da un sorriso amichevolmente ingannevole. La competenza? Chissenefrega. E con l'obiettivo di stritolare meglio il malcapitato, viene chiesto pure il suo grado di religiosità con una bella «La sua religione che feste ha?». Perché a Natale, Pasqua, Capodanno, Ramadan e quello che sia, non si può restare a bocca asciutta. Intendiamoci, non tutti quelli che sono a caccia di un lavoro sono bersaglio di questa serie di domande illegali.
E poi c'è un ma. Prendiamo gli Stati Uniti. Qui i colloqui si basano generalmente sulle capacità del candidato e sulle sue aspirazioni. Si valuta se la domanda coincide con l'offerta e capita meno di scivolare su domande personali. E però c'è una differenza: negli States, anche se assunto, al lavoratore si può dare il benservito velocemente, senza troppi giri di parole e di burocrazia.
Perciò non è così necessario conoscere bene e preventivamente il candidato: si può cambiare idea anche in corsa. Invece in Italia (senza fare di tutta l'erba un fascio), nel malaugurato caso che il lavoratore messo in regola si riveli poi uno scansafatiche, è davvero difficile lasciarlo a casa: si sa, da noi licenziare è più difficile che divorziare, e il nullafacente tocca tenerselo.
Ci si muove all'interno di un sistema rigido, trovare un lavoro è un terno al lotto e gestire i lavoratori pure. Un sistema affatto snello, in cui c'è poca libertà di movimento. Ragion per cui è anche normale che colui che deve assumere cerchi di sapere più cose possibile del candidato, prima di averlo contrattualizzato, per avere poi meno sorprese possibile. Ma quelle, si sa, non mancano mai. Da qualunque parte la si veda.