Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera”
«Il cancello». Vent' anni dopo quel primo giorno da militare è ancora quella l'immagine che torna negli occhi di Carla Brocolini: il momento in cui, da volontaria in ferma breve del primo corso di donne soldato, ha varcato l'ingresso della caserma. «Un'emozione fortissima, che ancora sento sulla pelle», confessa, mentre disegna un circoletto rosso sulla foto che la ritrae con quel plotone.
Ragazze che nel 2000, alla caserma Emidio Clementi di Ascoli Piceno, marciarono sopra un tabù: le caserme non erano più un posto per soli uomini. Come le era venuto in mente? Una sfida? Un gioco? «Mi aveva affascinato mio fratello, allora 16enne, che frequentava la Nunziatella. Mi parlava di valori, ideali, sacrificio, spirito di corpo, cameratismo. Io ne avevo 18, volli provare e mi ritrovai a vivere un'esperienza difficile, che mi avrebbe messo alla prova sia dal punto di vista fisico che mentale, ma assolutamente positiva, come mi aveva detto mio fratello.
Tanto che riconfermai la scelta, entrai in Accademia e diventai ufficiale», racconta Carla, ancora vibrante per la passione di un mondo, dice, che «mi ha insegnato disciplina, sacrificio, sudore, ma anche la soddisfazione di raggiungere i risultati sperati». Quella scelta le avrebbe cambiato la vita.
Ora è ufficiale pilota militare dell'Aviazione dell'esercito, sposata con un militare, «elicotterista e facciamo sempre a gara a dire chi è il vero pilota», con un bambino di due anni e mezzo. Ma non fu una scelta indolore. Il padre non gradì. «Quando arrivò la cartolina sfiorò l'infarto. Era in polizia, ma avrebbe preferito facessi altro. E anch' io pensavo di fare l'avvocato. Ma, soprattutto, ero all'ultimo anno di liceo classico. Non voleva che lasciassi la scuola.
Litigammo, poi raggiungemmo un compromesso: mi permisero di partire a patto che mi fossi diplomata a luglio da privatista». Promettere fu un attimo. Mantenere «una delle cose più difficili della mia vita. Perché mio padre aveva la costanza di darmi ogni giorno i compiti da fare. Ma dopo le sette di sera, dopo aver fatto ginnastica, marcia, topografia, esercitazioni, ero distrutta», ricorda. «Però feci uno sprint finale e sono contenta di aver tenuto fede a quella promessa. Anzi, due anni fa sono anche riuscita a laurearmi in Giurisprudenza».
Per lei e la sua compagnia ci furono flash, telecamere, e domandine maliziose su come venivano trattate in caserma. «Anch' io avevo un'idea di un mondo maschilista, dovuta ai filmetti anni Settanta. Ma ho trovato un ambiente di professionisti, dove al centro della formazione e dell'addestramento c'era il militare. Non una donna o un uomo». Nulla venne risparmiato alle allieve nel Rav: circuiti alla Platoon, salti, muretti da scavalcare, armi, lezioni.
I primi tre mesi di addestramento, comunque, furono solo femminili. E da quelle ragazze del plotone Carla non si separò mai più. «Sono le mie amiche più strette. Due sono state le mie testimoni di nozze. È un legame difficile da spiegare. Al Rav ho compreso il profondo significato e la forza della parola insieme. E ancora oggi abbiamo una chat dove ci scambiamo foto e ricordi». Ancora ridono per quello più buffo: «Ad Ascoli Piceno faceva freddo e pioveva, alla continuativa, il percorso più pesante, non vedevamo l'ora di fermarci a mangiare la razione K. Ed eravamo così stanche che una ragazza scambiò la diavolina con una zolletta di zucchero e la addentò».
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