Paolo Manzo per il Giornale
Torna a scorrere il sangue nelle carceri dell' Amazzonia e della sua capitale Manaus, come nel 2017. Stavolta il bilancio è di 57 morti in 4 prigioni differenti due anni fa era stato di 56 - ma tutto lascia pensare che il bilancio sia purtroppo destinato ad aumentare visto che le ragioni dei massacri sono sempre le stesse, ovvero una guerra senza esclusione di colpi tra le tre principali organizzazioni criminali che controllano il narcotraffico in Brasile. In particolare, il conflitto violentissimo tra il paulista Primeiro Comando da Capital (Pcc), il carioca Comando Vermelho (CV) e la Família do Norte (FdN).
Il primo massacro è avvenuto domenica pomeriggio nel Complesso penitenziario Anisio Jobim di Manaus, il Compaj, durante l' orario di visita parenti. 15 le vittime, alcune sgozzate con spazzolini da denti trasformati in cacciaviti, altre strangolate a mani nude con una mossa del judo, l' Hadaka-jime o, come la chiamano qui in Brasile, il colpo «mata-leao» perché in grado di uccidere persino un leone.
Una ferocia che ha colpito gli stessi agenti, intervenuti solo dopo molte ore, ma soprattutto la rottura del patto di onore tra gang criminali che, a detta del segretario dell' amministrazione penitenziaria dello stato Amazonas Marcus Vinícius de Almeida, «sinora aveva evitato massacri durante le ore di visita parenti». Lunedì i morti sono stati invece 25 nell' Istituto penale Antonio Trindade, 6 nell' Unità penitenziaria di Puraquequara, 5 in un Centro di detenzione provvisorio maschile ed altri 4 nel Compaj, tutte prigioni di Manaus e dintorni e tutti strangolati.
I media locali avevano scritto inizialmente di una classica rivolta carceraria alla sudamericana quelle dove i detenuti bruciano materassi e fanno vittime anche tra i secondini - la realtà è però tutt' altra. In primis perché non c' è stato nessun agente di custodia preso in ostaggio, inoltre non ci sono stati atti di vandalismo nei confronti delle strutture carcerarie.
Da anni comunque la policy non scritta tanto dei politici come dei mass-media dell' Amazzonia è mantenere sottotraccia il più possibile questo tipo di tragedie per tre motivi. Il primo è che oggi il Brasile è il paese che al mondo esporta più cocaina i cui introiti, spesso, finanziano le campagne elettorali. Il secondo è che questo enorme mercato è oggi conteso non solo dai tre gruppi sopra menzionati, ovvero il Pcc, il CV e la FdN, ma da ben 27 fazioni criminali ufficialmente censite dall' intelligence brasiliana. Il terzo è quello di evitare un non meglio specificato «effetto simulazione» tra i giovani. Un po' come se in Italia non scrivendo di ndrangheta, mafia, camorra e Sacra corona unita si risolvessero i problemi.
Quello degli ultimi giorni è stato insomma l' ennesimo regolamento di conti per il controllo di un business da milioni di dollari che, secondo gli analisti sentiti da Il Giornale, è stato causato o da una frattura all' interno della Familia do Norte o da uno scontro tra i leader di questa organizzazione criminale e quelli del Comando Vermelho, sino ad allora alleati tra di loro, almeno in Amazzonia, tradizionale via di transito della coca proveniente da Bolivia e Perù. La guerra che insanguina le carceri brasiliane trae la sua origine sul finire del 2016 quando finì il lungo accordo tra Pcc e CV, gang che nel 2017 si alleò proprio con la Familia do Norte per contendere la leadership della cocaina alla narcomafia di San Paolo che opera ormai su scala globale. Un patto che però ora è finito, ancora una volta nel sangue delle carceri.
Una situazione è così grave che il presidente Jair Bolsonaro, di concerto con il governatore dello stato di Amazonas ed il ministro per la Giustizia e la lotta contro il crimine organizzato - l' ex giudice della mani Pulite brasiliana Sergio Moro - ha deciso di mandare l' esercito come rinforzo per evitare che la situazione degeneri ulteriormente.
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