Giusi Fasano per il "Corriere della Sera"
È strano sentire una persona che dice «mi sento contento, strafelice» mentre racconta di aver ottenuto, finalmente, il diritto di morire. Ma, come ha sempre detto lui, «a chi pensa che io stia sbagliando vorrei chiedere: vieni qui accanto a me per una settimana, una sola. Poi capirai».
A volte il dolore può diventare così insopportabile che puoi anche sognare di morire. Mario non ha mai avuto dubbi: il Comitato etico non poteva negare che lui avesse i requisiti per accedere al suicidio assistito.
Hanno capito che «non c'è stata nessuna bugia in tutto quello che ho raccontato. Ho messo in fila le parole, le sensazioni, i sentimenti assolutamente fedeli alla realtà. Sono una persona al limite della sopportazione».
È tetraplegico, immobile in un letto nella sua stanzetta, con un pezzo di cielo sullo sfondo - sempre lo stesso pezzo - da 11 anni. La sofferenza è la sua più grande compagna di vita. Mangia se gli danno da mangiare, si lava se lo lavano, si veste se lo vestono...
Ma l'incidente che l'ha ridotto così gli ha lasciato la parola, la vista, la lucidità, e un piccolo movimento del braccio destro che muove con sforzi inenarrabili: per esempio per far cadere il mignolo sul telecomando e accendere la tivù - almeno quello - senza l'aiuto di sua madre.
«Come sto? Vado a giorni alterni. Ci sono giorni con più dolori e altri in cui soffro meno», racconta. Ma adesso tutti i suoi pensieri sono per questa «rivoluzione», così la chiama, «che sono riuscito a fare stando fermo. Il Comitato etico ha riconosciuto come vere tutte le cose che ho detto finora, da quello che raccontai agli amici dell'Associazione Coscioni quando ancora non mi conoscevano, a quel che ho detto alla commissione medica a settembre. E questo mi ha fatto un gran piacere.
E poi hanno rilevato che sono pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, e ho la capacità di autodeterminarmi. Hanno riconosciuto che le mie sofferenze, fisiche e psicologiche, sono intollerabili, sennò non avrei raggiunto questo traguardo. Mi ha dato tanto orgoglio questo riconoscimento».
Ad agosto del 2020 era pronto per andare a morire in Svizzera, oggi Mario sa che potrà farlo a casa sua, vicino a sua madre, a suo fratello, all'amico infermiere che si è preso cura di lui amorevolmente in questi anni. Insomma: alle persone più care.
«Questo mi fa sentire contento, strafelice», dice a tutti da due giorni. Ma c'è un pensiero che solo adesso si fa largo fra gli altri: l'amarezza per il dolore che proveranno le persone care quando lui deciderà di andarsene.
«Chi mi sta vicino comincia a rendersi conto... per loro, soprattutto per mia madre, cresce il dispiacere nel realizzare quello che farò, cioè schiacciare quel bottone e accedere al farmaco».
Parole che valgono per sua madre più che per chiunque altro. Lei che si illumina e sorride ogni volta che guarda il suo Mario, che non si è mai lamentata una volta per le fatiche infinite di ogni giornata accanto a lui, che lo ha sempre sostenuto perché «ha ragione, vivere così che vita è?»...
Lei l'altro giorno, quando ha saputo che adesso è tutto più concreto, più vicino, si è immaginata i giorni che verranno senza più quello spilungone nel letto, senza la sua voce squillante e allegra che riempie l'aria. E ha riflettuto che sì, «sono fiera e orgogliosa per quello che mio figlio ha saputo fare, ma adesso che è arrivato questo momento il pensiero mi fa soffrire perché so che lo perderò».
Mai come in questi ultimi due giorni Mario ha sentito la forza della gratitudine verso Marco Cappato e il team dei legali che hanno seguito il suo caso, a cominciare da Filomena Gallo, avvocata, segretaria nazionale dell'Associazione Coscioni e, a questo punto, anche grande amica.
«Insieme stiamo facendo la storia di questo Paese», dice lui. Che ora aspetta «l'ultimo passo che manca e che riguarda la scelta del farmaco. Sono fiducioso che non si perderà altro tempo. Mi sento rilassato, svuotato della tensione accumulata in 11 anni e diventata insopportabile in questi mesi. Sono orgoglioso di quello che ho fatto».
Ne è passato di tempo da quella domenica pomeriggio in cui decise di voler morire. Era il 2015 «ed ero con babbo in cortile. Mi ha chiesto che intenzioni avessi per il futuro e gli ho risposto: finché riesco vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia, se non riesco vado in Svizzera. Io so che lui ha capito. È morto l'anno dopo». Mario è già andato ben oltre quel «finché riesco vado avanti» che aveva immaginato allora. Ora è tempo di pensare ai saluti, a una data.
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