Estratto dell’articolo di Massimiliano Panarari per “La Stampa”
Ascesa e declino delle grandi potenze - Paul Kennedy
Nel 1987 uscì un libro a suo modo "profetico", che fece scalpore tra gli studiosi di politica e gli esperti di economia. Si era nel pieno degli anni Ottanta, quelli della Milano da bere e dell'edonismo reaganiano (come diceva Roberto D'Agostino a Quelli della notte). Era il decennio dell'ottimismo e dell'idea della crescita illimitata, su cui regnava appunto l'America di Ronald Reagan, destinata alla fine di quel periodo a festeggiare la capitolazione dell'Unione Sovietica.
In quel clima sommamente euforico e, per altri versi, isterico, il professore di Yale Robert Kennedy pubblicava Ascesa e declino delle grandi potenze, nel quale passava in rassegna i cambiamenti politico-economici e quelli militari degli ultimi quattro secoli. E arrivava così a formulare la "legge di tendenza" secondo cui l'incremento del budget militare oltre il tetto delle risorse investite dai poteri pubblici per supportare lo sviluppo economico coincideva con l'«inizio della fine» per la nazione egemonica.
Un punto di vista (scientifico) che, di fatto, anticipava il declino degli Stati Uniti proprio nella fase in cui sentivano di aver vinto definitivamente, celebrando il trionfo del «Secolo americano». Kennedy sembrava vaticinare un'altra storia: l'overstretch imperiale (il sovraccarico di necessità e impegni strategici da presidiare), come già per la Gran Bretagna, aveva toccato il culmine, e il primato economico, minato da una smisurata spesa militare, non avrebbe tenuto il passo del suo aumento irrefrenabile. Da allora è cominciato il viale del tramonto per l'Occidente atlantico […]
Il tramonto debutta con l'indebolimento dell'hard power e lo smarrimento del potere contrattuale diplomatico, anche se è stato integrato dallo sharp power e dal warfare tecnologico supportato da Big Tech. E il declino avanza quando il soft power perde appeal e appare meno seducente […]
Dentro ciascun ciclo storico ci sono luci e ombre, e il declino dell'Impero americano non è ancora arrivato alla sua caduta (per dirla con i titoli di due memorabili film della trilogia del regista canadese Denys Arcand). […] perché il tramonto va "zonizzato", e le province imperiali non sono tutte uguali a dispetto dell'omologazione tentata manu militari dal Washington consensus e dal pensiero unico thatcheriano del "Tina" (There is no alternative: non ci sono alternative), affermatisi sull'onda di quegli anni Ottanta da cui non siamo mai davvero usciti.
Assistiamo al declino – che sarebbe bene si accelerasse – di quell'Illuminismo estremista che è il neoliberismo, eppure la terra (già) promessa dell'Illuminismo applicato (come lo aveva chiamato Ralf Dahrendorf) continua a rappresentare un magnete multiculturale attrattivo per i molti talenti che vi giungono da ogni angolo del Villaggio globale.
Si estingue l'eroe troppo epico (e macho) del canone letterario, come raccontava su queste pagine Sara De Simone (e, in questo caso, come per il colesterolo possiamo parlare di un declino buono distinto da quello cattivo) – al punto che pure i supereroi della cultura pop si sono sdraiati da qualche tempo sul lettino dello psicanalista per provare a rielaborare le loro umanissime ferite dell'anima (altro segno, ma assai apprezzabile, dello spegnersi di un certo modello).
E la decadenza – di cui tutti, anche incolpevolmente, paghiamo le conseguenze – è quella di tanta parte delle classi dirigenti americane ed europee, irresponsabilmente ossessionate dall'inseguimento populista dell'elettorato o lontanissime dalle problematiche quotidiane delle persone; e pertanto inadeguate a svolgere il loro ruolo, come sosteneva sempre qui Jonathan Franzen, quintessenza di quello che dovrebbe essere l'intellettuale occidentale contemporaneo.
Per il quale, al netto degli scossoni e in presenza di rivoluzioni che sempre hanno caratterizzato il mutamento storico, la cultura occidentale rimane il "cosmo" dell'inclusività, della connessione fra i diversi e della contaminazione, ed è questa la sua forza inestirpabile (e la sua "polizza vita"). Ne deriva, quindi, anche l'esigenza di ripensare la figura dell'intellettuale pubblico, questa sì già incamminatasi da tempo sul viale di un altro tramonto, ma che dovrebbe osservare l'imperativo etico di custodire (e vivificare e riaggiornare) la memoria.
Perché nel declino, come noto, accade che si offuschino le facoltà, mentre ricordare (in primis, gli errori e il male di certe parabole temporali) sarebbe doveroso e indispensabile, specialmente in Europa, che della paura di perdere le proprie conquiste, senza comunque fare granché per rilanciarle, ha fatto la propria «paranoia», per citare nuovamente l'autore di Purity e de Le correzioni, un gioiello postmodernista dedicato proprio al tramonto della sbornia collettiva di ottimismo degli anni Ottanta, quando nei partiti (che furono) di massa gli intellettuali finirono per venire rimpiazzati da pubblicitari, spin doctor e consulenti di immagine.
La post-sfera pubblica egemonizzata dalle retoriche dell'uno vale uno e della disintermediazione demagogica della politica richiederebbe antidoti e inversioni di tendenza. E tale è la valorizzazione della memoria per prevenire il ritorno delle ombre junghiane del passato (dalle degenerazioni del Romanticismo all'irrazionalismo, dal colonialismo ai fascismi). Come pure per rammentare, ibridandoli (e vari pensatori e scrittori di origine non euroamericana lo ricordano spesso), i valori positivi inventati dalla cultura occidentale. La tolleranza e la società aperta. […]