Estratto dell'articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera”
Viktoryia Ramanenka, la mamma di Leonardo, racconta che lui le diceva sempre: «Mamma ti lovvo», mamma ti amo nel gergo dei quindicenni di oggi. […]
Sul citofono ci sono i loro due nomi: Ramanenka V e Calcina L. «Lui era la mia copia, ci somigliavamo anche di carattere, serio e caparbio, una memoria di ferro, bello e muscoloso, cresceva a vista d’occhio, nuoto e judo, 45 di piede, sognava di indossare una divisa, vigile del fuoco o marina militare», bisbiglia questa mamma […].
Viktoryia, 39 anni, di Minsk, professione contabile, con una laurea in economia e commercio, ci ha aperto la porta di casa ma vuole che per tutto il tempo dell’intervista, circa due ore, le resti seduta accanto l’avvocata Pia Perricci, che piange anche lei perché «era la seconda mamma di Leonardo», sussurra Viktoryia. È il giorno dopo il funerale di suo figlio. C’era tantissima gente a Montignano: amici, studenti, professori.
Un attestato di grande affetto, signora.
«Sì, ma mi chiedo: tutta questa gente prima dov’è stata? Dov’era? Io non l’ho vista aiutare Leo quando lui ne avrebbe avuto bisogno. A un certo punto della cerimonia si è avvicinato il preside del Panzini per farmi le condoglianze, a due passi c’era la bara di Leo. Io gli ho detto solo: “La prego di allontanarsi da me per favore”».
LEONARDO CALCINA - Viktoryia Ramanenka
Parole durissime.
«Durissime? Avrei dovuto dirgli ben altro, inutile chiedere scusa adesso, adesso è troppo tardi. Leonardo chiedeva aiuto, ma loro non l’hanno ascoltato».
L’inferno dentro la classe: vogliamo parlare di questo?
«L’avevano preso di mira in tre e io dicevo a lui: almeno difenditi! Ma Leonardo era troppo buono, mite, un bambino d’oro. Il 7 ottobre, dopo che da giorni lo vedevamo abbattuto e lui continuava a dire che non voleva più studiare, che non voleva andare a scuola, io e suo padre, Francesco, vigile urbano, abbiamo deciso di fare tutti insieme una passeggiata per affrontare il problema. E Leo un po’ si è aperto. Diceva: mamma io mi vergogno a riferirti le parole con cui mi offendono, oscenità di tipo sessuale.
E io allora gli dicevo: ma tu l’hai detto ai professori? E lui rispondeva: sì ma vanno avanti con la lezione come niente fosse. Il 9 ottobre era andato a parlare col prof di sostegno, ma quello gli aveva spiegato che la scuola è obbligatoria fino a 16 anni. E allora io insistevo: andiamo dai carabinieri, denunciamo quei tre ragazzi, ma Leo prendeva tempo, sperava che prima o poi l’inferno finisse.
Il 10 ottobre, tre giorni prima di spararsi in bocca con la pistola del padre, è tornato a casa e ha detto: mamma ho sistemato la cosa da me, ho fatto l’uomo, ho stretto la mano a uno di loro. Ma il giorno dopo, venerdì 11 ottobre, l’ho rivisto muto, angosciato. Di nuovo diceva che non voleva tornare più in quella scuola. La domenica sera s’è ucciso».
Non è passata neanche una settimana.
«Il tempo non passerà più, anche se adesso io pretendo giustizia: che quei bulli vadano dritti in riformatorio. E chi ha sbagliato tra i prof se la veda coi giudici. È un dovere per i docenti tutelare i ragazzi, noi li affidiamo a loro». […]
A telefonare, invece, alle 20.40 è stato Francesco.
«Sì mi ha detto che Leo era sparito dopo aver preso dalla cassaforte la sua pistola. Aveva disattivato anche la telecamera che punta l’armadio. Aveva pensato a tutto, ormai aveva deciso. Nella bara gli ho messo gli AirPods, le cuffiette che si portava sempre dietro e l’orsacchiotto Teddy a fargli compagnia. Ma perché non mi ha telefonato quella sera? Forse sarei riuscita a fermarlo».
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