ARTICOLI CORRELATI
Estratto dell'articolo di Elisa Sola per "La Stampa"
«Mi chiamo Massimo e sono un operaio. Ho 61 anni. E 34 di contributi. Ho passato la vita in fabbrica. […] Ma dal 2000 in poi le aziende in cui sono stato mi hanno lasciato a casa. Hanno chiuso o sono fallite. Mi sono sempre dato da fare. Ho mandato migliaia di curriculum. Solo che alla mia età non ti vuole più nessuno. Il giorno in cui mi sono spaccato le vertebre non me ne sono accorto subito. Ero disoccupato da sei anni. Mi hanno offerto un contratto di una settimana per otto euro lordi l'ora. Ero felice. Il primo giorno mi hanno messo a scaricare pacchi di paraffina da 50 chili. L'ho fatto per otto ore. Sono tornato a casa e mi sono seduto sul divano. Ho sentito delle scosse alla schiena. Da allora non sono più riuscito ad alzarmi per tre mesi».
Massimo Fasolio non lavora dal 6 giugno del 2022. È stato il primo e l'ultimo giorno del suo ritorno in fabbrica. Addetto alla catena di montaggio, la mansione prevista. Lui ha fatto ciò che gli hanno chiesto. La frattura delle vertebre lo ha costretto a stare immobile, con il busto, per tre mesi. La procura di Torino ha chiesto l'archiviazione dell'infortunio sul lavoro perché «non è stato possibile risalire all'autore del reato, ben potendo il lavoratore rifiutare di effettuare le lamentate prestazioni di carico e scarico».
L'avvocato Guido Anetrini, che assiste Fasolo, si è opposto alla richiesta, sulla quale deciderà il gup. «Siamo di fronte a una deriva dei diritti dei lavoratori che ci conduce verso il baratro - afferma il legale - eppure, e lo dico da liberale, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Non può essere condiviso l'assunto per cui l'operaio avrebbe dovuto rifiutarsi».
Fasolio, come sta?
«Ho ancora mal di schiena».
Dopo due anni dall'incidente?
«Sì. Certi giorni quelle scosse le sento ancora. Ma non è quello il punto. Non voglio lamentarmi. Io vorrei lavorare. Non mi sono mai tirato indietro davanti a nessuna fatica nella mia vita».
«Mandavo migliaia di curriculum e nessuno mi chiamava».
Secondo lei perché?
«Perché ero vecchio. Per loro. Non per me. Un giorno l'addetta di un'agenzia interinale me lo ha proprio detto. Avevo appena finito un colloquio, era andato bene. E ha aggiunto: Lei è piaciuto, ma sa, è per l'età... Eppure io non mi sono mai tirato indietro. A 14 anni lavoravo già, al bar della vecchia stazione di Porta Susa».
[…] Come ricorda il giorno dell'incidente?
«Ero contento perché erano anni che nessuno mi chiamava. Mi hanno chiamato alle 10,30. Mi hanno chiesto due cose: se avevo le scarpe antinfortunistiche e se potevo iniziare alle 13. Ho detto sì».
E poi cosa è successo?
«Appena arrivato, con altri, ci hanno portato in una specie di capannone. C'era un Tir pieno di paraffina. Stavano aprendo il portellone dietro. E c'era da scaricare i pacchi. Uno più vecchio di me non lo ha fatto, perché non ce la faceva. Io ho iniziato con quelli da 25 chili. E poi con quelli da 50. Erano tonnellate di roba. Molto pesanti. Finito il turno sono andato in agenzia a firmare il contratto e sono tornato a casa. Ero felice».
[…] Cosa pensa della richiesta di archiviazione del suo infortunio?
«Ci sono rimasto molto male. Ho ricevuto la raccomandata una mattina. Erano mesi che nessuno mi diceva più niente. Ho pensato che non era una cosa giusta. E sono andato da un avvocato. Io ho sempre lavorato e rispettato tutti. Non mi sono mai tirato indietro. E quel giorno non potevo rifiutarmi. So di essere nella ragione. Se fossi andato via, mi avrebbero accusato di non avere terminato il lavoro».
Cosa si aspetta adesso?
«Giustizia. Un risarcimento per la mia schiena e per il male che ancora ho. Penso alla pensione. Chissà se ci arriverò. Devo arrivare a 67 anni. Cosa avrei dovuto fare, più di così, non lo so. Mi sono fatto male lavorando. E se penso a quante volte ho rischiato, in fabbrica. Anni fa ci facevano salire su dieci pedane, una sopra l'altra, per raggiungere un silos. È tutto il sistema della sicurezza che non va. In Italia non esiste e non funziona».