DAGONOTA
(dall'articolo "The Weaponization of history" pubblicato dal "Wall Street Journal")
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“È meglio avere un muro completamente bianco - o racconti stracolmi di morale sull’eroismo delle persone di colore - che raccontare una storia complicata su un eroe americano”. È questa ormai la tendenza che l’America ha con il suo passato. Una tendenza manifestata dai politici, dalle élite delle università che eliminano ogni devianza dal pensiero dominante, e anche dai giornali.
Il tentativo del “New York Times” di riscrivere la storia degli Stati Uniti e dare merito agli schiavi che hanno costruito il mito americano è la summa perfetta di questo trend. “1619 project” è una mega-inchiesta del quotidiano, che guarda al passato degli Stati Uniti mettendo al centro il fenomeno dello schiavismo, che arriva a mettere in discussione la bontà della Costituzione compilata nel 1787, finora considerato documento illuminante e illuminato da pressoché tutti.
Scordatevi i padri fondatori, Tocqueville, scordatevi il mito della frontiera: l’America non è una democrazia, ma una schiavocrazia! Ormai, come spiega lo storico Wilfred M. McClay* in un editoriale sul Wall Street Journal, la storia viene sempre più usata come arma politica.
“il miglior esempio in tal senso - spiega McClay, è il sempreverde argomento ad Hitlerum,
secondo cui qualsiasi male, dal bigottismo al vegetarianesimo e perfino all’apprezzamento di Wagner, viene ricondotto a un immaginario nazista. Ecco quindi che i centri di detenzione sul confine meridionale dell'America dovrebbero essere chiamati "campi di concentramento", secondo Alexandria Ocasio-Cortez. È un po’ la stessa cosa che vediamo in Italia con il fantomatico “ritorno del fascismo”, tirato in ballo di tanto in tanto per attaccare gli avversari politici, da Berlusconi a Salvini.
“Quando è stato interrogata a proposito, la giovane democratica ha consigliato agli americani: ‘Questa è un'opportunità per noi di parlare di come apprendiamo dalla nostra storia’. Peccato che - spiega ancora McClay - quella storia non sia la nostra”.
Continua McClay: “Un esempio più inquietante è la precipitosa corsa a giudicare gli eroi del passato e demolire o rinominare i monumenti a loro dedicati. Tra questi ci sono George Washington, Thomas Jefferson e Woodrow Wilson. Siamo davvero così deboli di cuore che non possiamo più tollerare che grandi uomini del passato per alcuni aspetti non soddisfano le nostre attuali categorie?
il murale su george washington e lo schiavismo cancellato a san francisco
È vero che tutti e tre gli uomini avevano o schiavi o credenze razziste. Ciò esaurisce tutto ciò che dobbiamo sapere su di loro? Dovrebbe superare il valore di tutto il resto che hanno fatto? (…) Ma così si trasforma la storia in un'arma, e lo si fa con una brutale semplificazione della documentazione storica. È l'approccio dell'audace "Progetto 1619" del New York Times, secondo il quale "quasi tutto ciò che ha reso l'America eccezionale è nato dalla schiavitù".
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Un approccio sinceramente storico riconoscerebbe certamente che Washington possedeva schiavi, lo peserebbe in funzione delle sue credenze e delle sue azioni nell’ambito di un’ampia e lunga vita. Le considererebbe nel contesto del loro tempo, e terrebbe anche conto della sua decisione di liberare i suoi schiavi al momento della morte.
Ma la complessità, purtroppo - scrive ancora McClay - non va più di moda. Ad esempio un consiglio scolastico di San Francisco ha votato coprire un murale dedicato al primo presidente americano. La motivazione? Era razzista e degradante per il modo in cui rappresentava neri e nativi americani. Meglio avere semplici e tranquillizzanti pareti bianche piuttosto che raccontare una storia complicata su un eroe americano.
Ma attenzione, “armare” - spiega lo storico - significa essere ostili alla storia vera e semplificarla tremendamente. È quello che si vede ormai da anni con l’intersezionalità che domina i campus universitari staunitensi, con la “cultural appropriation”, con le categorie di “storicamente sottorappresentato” per certificare gruppi che in base al passato si suppone debbano necessariamente essere favoriti automaticamente oggi”.
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Insomma, la storia serve ancora? Perché studiare ancora il passato? “Oggi la risposta sembra essere troppo spesso ‘per ottenere armi migliori da usare nelle attuali battaglie’. Ma non può durare per sempre. Una volta che la storia diventa un club, perde la sua credibilità. E le affermazioni ‘esageratamente esagerate’ del 1619 project del Times non faranno che gettare discredito sull’analisi storica”.
*professore all’Università dell’Oklahoma e autore di “Land of Hope: An Invitation to the Great American Story” https://www.amazon.com/Land-Hope-Invitation-Great-American/dp/1594039372
L' AMERICA? CHIAMATELA SCHIAVOCRAZIA
Enrico Deaglio per “la Repubblica”
L' atto d' accusa è senza precedenti: «Cittadini americani, tutto quello che vi hanno sempre detto sulla purezza della nostra democrazia, sulle nostre libertà superiori a quelle di qualsiasi altro, sulla eticità del nostro capitalismo e della nostra Costituzione è semplicemente falso, disonesto ed ipocrita. Le cose non andarono così: noi non siamo figli di una lotta di indipendenza, ma di una "schiavocrazia", che ancora adesso plasma la nostra vita sociale ». Queste parole non sono scritte su un volantino di un centro sociale, su un sito di assatanati marginali o su una pubblicazione di un accademico eccentrico, ma sono stampate in grandi caratteri sul New York Times , il più importante giornale del mondo, in un "evento" destinato a segnare, se non altro, una svolta nel giornalismo.
Si tratta di The 1619 Project , un'"inchiesta- bomba" pubblicata con super tiratura sul magazine del quotidiano, che rivisita la storia americana a partire dal quattrocentesimo anniversario di una data mai veramente ricordata. Nell' anno 1619, davanti alle coste della Virginia, una nave pirata inglese assalì un vascello portoghese, cercando oro e dobloni. Trovò invece nella stiva «20 o più» africani, che erano stati rapiti in un territorio che oggi è l' Angola.
il murale su george washington e lo schiavismo cancellato a san francisco 2
Non sapendo che farsene, i pirati inglesi li barattarono per provviste, con uno sparuto gruppo di settlers inglesi. L' arrivo di quel gruppo di africani segnò l' inizio della schiavitù americana, che avrebbe portato in quel continente 12,5 milioni di loro fratelli, in catene, in viaggi attraverso l' oceano Atlantico che causarono la morte di altre due milioni di persone, nella «più grande migrazione forzata della storia fino alla Seconda guerra mondiale».
Era appunto il 1619, i Padri Pellegrini sarebbero arrivati solo l' anno dopo - quindi non sono loro i "founding fathers"; e solo 157 anni dopo i coloni inglesi decisero che erano stufi dell' Inghilterra che gli faceva pagare troppe tasse e produssero quel gioiello per le sorti dell' umanità («tutti gli uomini sono uguali» «il diritto alla felicità») che è la Dichiarazione d' Indipendenza, ma si dimenticarono - anzi non li nominarono proprio - gli schiavi africani, che costituivano già allora un quinto della popolazione.
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Neanche la Costituzione fa cenno a loro, ma piuttosto si dilunga su tutti i sistemi con cui il governo si impegna a garantire agli schiavisti la loro "proprietà", compreso l' uso gratuito dell' esercito e della polizia in caso di ribellioni o fughe. Solo nel 1870, dopo la guerra civile dai 600 mila morti e la liberazione di quattro milioni di schiavi, il Congresso approvò il diritto di voto per i neri, ma solo nel 1965, dopo anni di lotte civili, il presidente Johnson ottenne che quel diritto potesse essere esercitato. E ancora oggi è ostacolato.
george washington era uno schiavista?
L' impianto del 1619 Project è una sorta di candida rivoluzione copernicana: è bastato riguardare la storia mettendo al centro un "fenomeno" di cui si faceva fatica a parlare, e fargli ruotare il mondo intorno, per cambiare il significato degli eventi.
E dunque, se si ammette che la forza lavoro schiava è stata determinante per la realizzazione dei grandi miti americani, dalla costruzione delle città, al disboscamento delle foreste e soprattutto alle enormi produzioni di zucchero e cotone (la potenza economica americana nell' Ottocento costruita con il lavoro forzato), si potrà osservare che da questa generazione di ricchezza a basso costo concentrata al Sud sono nate, al Nord, sia la rivoluzione industriale, sia il sistema bancario, sia la globalizzazione dell' epoca.
Dei primi 12 presidenti americani, 10 erano proprietari di schiavi; all' inizio dell' Ottocento, l' uomo più ricco d' America era un broker di schiavi del Rhode Island; la Wall Street di New York si chiama così per il Muro, davanti al quale si svolgevano le compravendite degli schiavi.
La guerra civile nel 1865 sancì la fine ufficiale della schiavitù, ma l' America fece molta difficoltà ad ammettere che quei quattro milioni di persone erano stati i protagonisti della nascita di una nazione. Lo stesso presidente Lincoln, il campione dell' abolizionismo e il vincitore della guerra, convocò alla Casa Bianca - ed era la prima volta che uomini neri varcavano la soglia di quell' edificio che i loro genitori o nonni avevano costruito come schiavi - un gruppo di afroamericani "prominenti" e spiegò loro che era meglio che le due razze si separassero; e li informò che aveva dato ordine al Congresso di trovare i soldi necessari per trasferire tutti in Africa.
Il progetto non andò in porto, anche perché Lincoln venne ucciso, ma quello che è certo - secondo The 1619 Project - è che tutte le successive conquiste della democrazia americana, sono avvenute non grazie ai bianchi, ma nonostante i bianchi, e solo perché i neri d' America sono stati più patriottici di tutti i loro concittadini, aprendo la strada alle conquiste di tutti gli altri.
È una ricostruzione romanticizzata della storia americana? Non proprio, anche se il 1619 Project arriva ad un pubblico di massa dopo una serie di successi letterari sullo stesso tema; si lega piuttosto a un movimento politico - che ha una certa consistenza, specie in un anno di elezioni presidenziali - e che chiede, per i neri d' America, una "compensazione" concreta e tangibile, per le ingiustizie subite da sempre.
Tutto il "progetto" - passato al vaglio dei più importanti storici, e che si avvale dei contributi di poeti, giornalisti, musicisti in una ricostruzione radicale e maestosa della storia americana - è stato coordinato da Nikole Hannah-Jones, giornalista del Times , 43enne nata a Greenwood, Mississipi dove suo padre era bracciante agricolo. La città è nota per essere stata una delle capitali del cotone, ma anche dei linciaggi e del razzismo. Presentando il suo lavoro, Hannah-Jones scrive: «I neri hanno visto il peggio dell' America, ma nonostante tutto credono ancora nel suo meglio. Una volta ci dissero che proprio perché eravamo stati schiavi, non avremmo mai potuto essere americani. Ma fu proprio in virtù della nostra schiavitù, che siamo diventati i più americani di tutti».
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Allibita e furiosa per questa pubblicazione, tutta la destra americana, presidente in testa. Finora cauti i candidati democratici. Ma un successo democratico Nikole Hannah- Jones l' ha già ottenuto: ha conquistato il New York Times .
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