ANDREA PASQUALETTO per il Corriere della Sera
All'obitorio di Montebelluna le salme non ci stavano più e le hanno spostate in un paesino della zona. «Siamo al collasso», urla il sindacato dei medici ospedalieri agitando così lo spettro di Bergamo. «Ma no, qui non ci sono camion dell'esercito e nessuno viene lasciato morire. Il problema e che convergono i pazienti di un altro ospedale», getta acqua sul fuoco il direttore generale dell'azienda sanitaria trevigiana, Francesco Benazzi. Questa è terra ad altissimo contagio, ragione per cui anche i funerali devono attendere perché i parenti non possono uscire di casa.
I morti però sono troppi e spaventano. Un centinaio di chilometri più in là, a Verona, stanno invece liberando frettolosamente decine di posti nelle terapie intensive: «Calerà l'attività ordinaria, prevalentemente chirurgica, del 40%, per fare spazio ai Covid», sospira il direttore dell'azienda ospedaliera, Francesco Cobello, smentendo però la testimonianza choc di un infermiere che parlava di «caos e morti in corridoio».
Poi c'è Schiavonia, in quella Bassa Padovana teatro dei primi casi e salita a esempio di efficienza nella lotta al virus, dove scuote la testa il primario di Anestesia e rianimazione, Fabio Baratto: «Sono molto preoccupato perché ho più ricoveri di marzo e aprile, manca il personale e quello che c'è è ridotto allo stremo. Devo dirlo, purtroppo: stiamo dando segni di cedimento». Treviso, Verona, Padova.
Ma in Veneto il problema è generale e la gioiosa macchina della sanità che aveva superato brillantemente l'esame della prima ondata, è in frenata. A certificarlo sono i numeri: ieri la regione ha sfornato i peggiori d'Italia su contagi (3.324) e decessi (165), superiori anche a quelli della Lombardia, da sempre la pecora nera nazionale. Per i morti si tratta di un picco, che potrebbe anche aver risentito dell'effetto sommatoria del fine settimana ma che lo stesso governatore Luca Zaia non esita a definire «pesante»: «Sì, situazione pesante, con più di tremila ricoverati. È come se quasi sette ospedali grandi di provincia fossero orientati Covid. Non abbiamo più paura di morire...».
Zaia ce l'ha con la «frangia consumista di incivili» che ha preso d'assalto le città. Ma al tempo stesso cerca di preservare utili e fatturati di ristoratori, baristi, albergatori, condannando chi vorrebbe fermare le attività: «È facile dire chiudiamo tutto con il portafoglio degli altri». Da una parte striglia chi si ammassa nei locali, dall'altra difende chi li apre. Ma c'è uno studio della Regione che sembra non lasciare dubbi su quanto sta succedendo in questo territorio.
L'ha presentato Francesca Russo, medico e capo del dipartimento di Prevenzione della Regione, un po' la regista del modello veneto e da sempre schiva con i media: «Abbiamo considerato il tasso medio di mortalità deli ultimi tre anni. L'eccesso rispetto a questa media è stato del 38% tra la fine di marzo e l'inizio di aprile. Durante l'estate è sceso drasticamente, nei primi 15 giorni di novembre è salito al 32% e nella seconda metà ha toccato il 44%».
La fascia più contagiata è quella compresa fra i 25 e i 64 anni, 75 è l'età media dei ricoveri e la mortalità si alza a partire da quella soglia. Conclusione: «Il mondo produttivo è quello che si infetta di più e fa da vettore per gli anziani che finiscono in ospedale e talvolta muoiono». Ma se la situazione è questa, perché il Veneto continua a rimanere zona gialla? È un fatto di parametri, di indici, sui quali incide naturalmente la percentuale di occupazione delle terapie intensive.
Ci sono mille posti disponibili, secondo la Regione, e 588 ricoverati. «È un numero dopato, la verità è che gli ospedali in alcune aree sono vicini al punto di rottura», accende la miccia Adriano Benanzato, segretario del sindacato dei medici ospedalieri. «Nessun trucco - replica Paolo Rosi, coordinatore delle terapie intensive del Veneto -. Possiamo arrivare a quel numero di posti letto, considerando quelli predisposti anche se normalmente non sono funzionanti e quelli riconvertibili di altri reparti».
Benanzato non ci sta: «Riconvertibili? Ma come fai a raddoppiare i posti se già ora mancano i medici?». Senza considerare che un paziente su due, in terapia intensiva, ci lascia le penne. Al di là di qualsiasi discussione, rimangono le croci. E rimane un parametro che non sarà molto scientifico ma è significativo: i necrologi.
Il Giornale di Vicenza , altra provincia ad alta diffusione, normalmente faceva due colonne, ora è a una pagina e mezza. Che comunque non sono le dieci stampate dall'Eco di Bergamo nei giorni neri della pandemia. «Ma bisogna dire che la gente spende molto meno di prima e i necrologi costano - spiega Marino Smiderle, caporedeattore del quotidiano -. Ma quelli affissi ai cimiteri, come a Schio, non mentono. E lì sono molti di più».