Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, stamane la mia è stata un’unica sequenza di gesti il prendere dalla buca delle lettere il pacchetto dov’era contenuto un librino/gioiello di Mario Praz dal titolo Omelette soufflée à l’antiquaire (edito da Aragno), aprirne la prima pagina e mettermi in poltrona a leggerne le 74 pagine per poi alzarmi solo quando avevo finito.
Lo so, lo so, mi dirai più o meno “Ma a chi vuoi che interessi oggi uno come Praz?”. Lo so che mentre io e te siamo due figli sputati del moderno - e lo sono le nostre due case/collezioni - lui era uno studioso che reputava si stagliasse tra Settecento e Ottocento la vetta della storia culturale e del resto la sua leggendaria casa/collezione (prima a via Giulia e poi a via Zanardelli al Museo Napoleonico) era consacrata ai modi e ai gusti della stagione europea detta neoclassica, e quanto ad espressioni peculiari del moderno come ad esempio l’arte informale Praz la respingeva in blocco.
mario praz omelette soufflee a l’antiquaire
Salvava solo Alberto Burri. Con un pittore che è tra i padri del moderno quale Giorgio De Chirico, si salutavano appena quando si incontravano. Sono andato a vedere qual è oggi la sorte dei libri di Praz su Amazon. Il memorabile La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (la cui prima edizione è del 1930) è stato recensito da 40 lettori, e invece il catalogo dedicato al palpitante museo di via Zanardelli ha avuto una sola recensione.
Se è per questo già quando stavo nei miei trent’anni ed ero appena arrivato a Roma (dunque nei Settanta) il nome di Praz (nato nel 1896, morto a Roma nel 1982) era estraneo alla gran parte della mia generazione. Una generazione con la quale il “vecchio professore”, come lo definì un giornale nel segnalare che il suo La casa della vita (edito nel 1958) era stato ammesso alla finale del Premio Strega (l’anno in cui vinse Il Gattopardo), non aveva il benché minimo rapporto intellettuale.
Praz scriveva prima sul “Tempo” e poi sul “Giornale” di Indro Montanelli, di cui in tanti dicevano che era “un giornale fascista”. E siccome a un certo punto anch’io presi a collaborare con il quotidiano di Indro e a frequentarne la redazione, non ricordo chi mi raccontò che il vecchio Praz ci andava più volte che poteva, e questo pur di starsene seduto in anticamera a rimirare la segretaria di redazione che era in effetti una gran bella donna.
Da quando s’era rotto il suo matrimonio, e dunque negli ultimi trent’anni della sua vita, la sua solitudine deve essere stata lancinante. Solitudine assieme umana e culturale. La sua sola compagnia erano gli oggetti d’arte collezionati amati studiati che costituivano la sua casa museo e che lui avrebbe celebrato nel luminoso capolavoro del 1958. Un libro di cui ho spasimato a lungo, e che a tutti i costi volevo leggere in una copia della prima edizione, e che ho poi riletto nella sontuosa edizione che ne apprestò Roberto Calasso all’Adelphi. Uno dei libri più stupefacenti dell’intero Novecento italiano. Per me collezionarne i libri e cercare in particolare quelli di Praz fu un tutt’uno.
Mi pare fosse al numero 147 di via Giulia il portone di casa Paz. La mia prima casa romana non era lontana da lì, e dunque ci passavo continuamente. Una volta che ci passai a notte inoltrata accompagnando una ragazza che mi piaceva molto, arrivati all’altezza del fatale numero 147 mi fermai, la abbracciai e la baciai. Dove altro se no? E anche nella casa di via Giulia non entrai mai. Con Michela entrammo a via Zanardelli qualche anno dopo la morte di Praz. Non sapevo nulla di nulla delle cose amate da Praz, e con tutto questo la loro fascinazione era immensa.
La fascinazione che ti viene dal condividere il morbo del collezionare che Praz aveva patito tutta la vita e che lo aveva esaltato tutta la vita. A quel morbo è dedicato il toccante libro edito adesso da Aragno, splendidamente curato da due studiosi quarantenni, Giovanni Balducci e Giuseppe Balducci. Ancora una volta è la storia assieme di oggetti meravigliosi, di antiquari che seppero individuarli e valorizzarli, di collezionisti che fecero di tutto per metterseli in casa e guardarli ogni giorno che Dio manda in terra. Tu e io, caro Roberto, sappiamo di che si tratta.
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