Angelo Allegri per "il Giornale"
Una trafficata rotonda stradale nel centro di Milano: due vetture si toccano. I danni sono limitati, ma nel caos dell’ora di punta mattutina le guidatrici non riescono ad accordarsi su chi abbia ragione e chi torto.
Si scambiano i numeri di cellulare, si danno appuntamento per un chiarimento in serata e ripartono ognuna per la propria destinazione. Una delle due la sera risulterà irraggiungibile al telefono, qualche giorno dopo l’altra riceverà una comunicazione dalla propria compagnia assicurativa: ha provocato un incidente con danni e ci sono due testimoni citati per nome e cognome dalla controparte che garantiscono che la colpa dell’accaduto è sua.
Invano l'interessata cerca di controbattere che non c'è nessun testimone, che ha visto lei stessa l'altra conducente allontanarsi senza parlare con nessuno dei frettolosi e per nulla interessati passanti.
La compagnia le fa presente che non esistono le condizioni per fare opposizioni o ricorsi e che approfondire la questione risulta impossibile; molto più conveniente per tutti mettersi l'animo in pace e rassegnarsi alla retrocessione in una classe di merito peggiore, con annesso rincaro del premio.
Una storia minima, come ne accadono tante. Anzi, come ne accadono sempre di più. Secondo i dati dell'Ivass, l'autorità del comparto assicurativo, elaborati di recente dal Sole 24 Ore, dei 2 milioni di incidenti denunciati nel 2020 (un record in positivo per la mancanza di traffico legata ai lockdown, -30% rispetto all'anno precedente), 496mila sono da considerare a rischio frode.
In pratica un incidente su quattro, per caratteristiche delle persone coinvolte, dei testimoni, delle circostanze o dei danni, suscita qualche sospetto. Davvero un mare, a cui fa da contraltare il rivolo dei sinistri finiti in tribunale: in tutto 4.117.
La sproporzione è tale da far pensare che alle compagnie non interessi più di tanto approfondire davvero torti e ragioni su quanto accade per le strade. I maggiori costi vengono comunque trasferiti agli assicurati con polizze più care (secondo cifre ufficiali 90 euro in più rispetto alla media europea) e anche il meccanismo del risarcimento diretto è congegnato in modo da non garantire efficienza.
Dal 2007 per i sinistri più semplici è l'assicurazione del danneggiato a versargli direttamente la somma dovuta per l'incidente. La società si rivarrà poi sulla compagnia del «colpevole»; non, però, secondo quanto effettivamente versato ma in base a dei versamenti a forfait. Se il danno risarcito non è particolarmente rilevante ci si può perfino guadagnare.
PROCESSI LENTI
Le compagnie, come ovvio, negano la disattenzione verso il fenomeno e, anzi, affermano il proprio impegno. Con qualche numero al proprio arco. Tanto per cominciare, dice l'Ania, l'associazione di settore, bisogna tenere conto non solo dei sinistri finiti in un processo, ma anche di quelli per i quali, a seguito delle indagini delle società assicurative, gli interessati rinunciano al risarcimento o comunque questo non viene versato: in tutto sono oltre 42mila, circa il 9% del totale, con un risparmio intorno ai 250 milioni di euro.
Ma il vero problema è il funzionamento dei tribunali. Portare in giudizio un potenziale truffatore è inutile se poi il procedimento finisce nel nulla. Il 70% delle udienze viene fissato a 3 anni dalla richiesta.
Per avere una sentenza di primo grado ce ne vogliono mediamente 4, un ricorso in appello garantisce di fatto la prescrizione, fissata a sei. Il risultato è, dicono le compagnie, che tra il 2013 e il 2019 i procedimenti penali avviati dalle imprese sono stati 22.644: solo il 34% si sono in qualche modo conclusi (con un'archiviazione, un'assoluzione o una condanna).
E tra quelli conclusi più del 50% sono finiti con una archiviazione. È anche per questo che l'associazione delle imprese assicurative sta siglando con le maggiori Procure italiane (ultima quella di Roma) una serie di protocolli d'intesa per facilitare lo scambio di informazioni tra organi.