UNA VITA IN VACANZA? MACCHÉ, TROPPO TEMPO LIBERO NON RENDE FELICI - LO SOSTIENE UNA RICERCA DELL'UNIVERSITA' DELLA PENNSYLVENIA: IL SENSO DI BENESSERE PERCEPITO AUMENTA FINO A DUE ORE DI TEMPO LIBERO AL GIORNO - RIMANE COSTANTE DALLE DUE ALLE CINQUE ORE DI LIBERTÀ, E PASSATE LE CINQUE ORE SI INIZIA A STARE PEGGIO PERCHE' SUBENTRA UN SENSO DI IMPRODUTTIVITÀ CHE PEGGIORA L'UMORE - MA NON SARA' L'ENNESIMA RICERCA CETRIOLO PER "DIMOSTRARE" CHE E' NECESSARIO RESTARE H24 CONNESSI A LAVORO, MAGARI IN SMART WORKING?

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Giuliano Aluffi per “la Repubblica”

 

Ordiniamo la cena con un'app pur di non metterci a cucinare, affidiamo le pulizie di casa a un robottino, guardiamo le serie tv in streaming a velocità x1.5, compriamo l'ananas già tagliato al supermercato: il tutto per avere più tempo libero a disposizione. Ma - paradossalmente - superato un certo limite, non equivale ad avere più felicità.

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A suggerirlo è uno studio pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology da Marissa Sharif, docente di marketing alla Wharton School della University of Pennsylvania. Analizzando le risposte che oltre 35.000 americani hanno fornito rispetto alla quantità di tempo libero giornaliera e al senso di benessere percepito - e integrando i risultati con quelli di due sondaggi online su altri 6.000 soggetti - Sharif ha trovato che il senso di benessere percepito dalle persone sale con l'aumentare del tempo libero solo fino alla soglia delle due ore.

 

Poi il livello di benessere rimane costante dalle due alle cinque ore di libertà, e passate le cinque ore si inizia a stare peggio. «La nostra interpretazione è che a quel punto subentri un senso di improduttività, di mancanza di scopo che peggiora l'umore», spiega Marissa Sharif. «Ciò è in linea con studi precedenti che mostrano come le persone, in genere, siano più felici quando sono indaffarate».

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A suggerirlo sono gli studi sul fenomeno definito "avversione all'ozio" ad opera di Christopher K. Hsee, docente di scienze comportamentali alla Booth School of Business dell'Università di Chicago. In uno di questi lavori Hsee ha chiesto a un gruppo di studenti di compilare un questionario sulla loro università.

 

Finita la compilazione, Hsee ha annunciato che un secondo questionario sarebbe stato pronto solo dopo un quarto d'ora, e che quindi gli studenti avrebbero potuto aspettare sul posto (scelta "oziosa") oppure avrebbero potuto recarsi in un altro edificio a un quarto d'ora di cammino (scelta "indaffarata") e compilare lì il secondo questionario.

 

Gli studenti che hanno optato per la camminata hanno riportato un maggior grado di felicità rispetto agli altri. Diverse le interpretazioni offerte da Hsee per questo risultato: tipicamente le persone rifuggono la noia e cercano la varietà nelle esperienze, l'attesa viene vissuta con fastidio, il lavoro è percepito come virtuoso e fonte di approvazione da parte degli altri.

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Nella sua ricerca Hsee suggerisce non solo che chi è indaffarato è più felice di chi ozia, ma che questo accade anche quando l'essere indaffarati non è una libera scelta dell'individuo, ma qualcosa che dobbiamo fare perché gli altri ce lo chiedono. E potrebbe essere proprio l'avversione all'ozio che fa sì che anche quando ci stiamo rilassando desideriamo mantenere, almeno formalmente, una qualche parvenza di lavoro: come sa chi si guarda bene dall'andare da Starbucks senza il fido laptop da esibire sul tavolo.

 

È del tutto comprensibile ed è un impulso destinato a diventare più forte man mano che la diffusione dello smart working continuerà a erodere i confini tra vita d'ufficio e vita privata: il fatto che oggi, grazie alle tecnologie digitali, potenzialmente potremmo essere impegnati in qualche lavoro in qualsiasi momento della nostra giornata, significa che si sono moltiplicate le occasioni per sentirci anche solo velatamente in colpa quando siamo improduttivi.

 

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Come se commettessimo un abuso di tempo libero. Questo non vuol dire, però, che dobbiamo per forza fingerci indaffarati anche quando non lo siamo affatto. Anche perché ciò potrebbe renderci impopolari: è il caso di uno studio di quest' anno di ricercatori di Harvard, in cui si mostra come, se proprio si deve rifiutare un invito di un conoscente, piuttosto che dire «Ahimé, mi spiace ma non ho proprio tempo», è preferibile addurre ragioni meno soggettive. Per esempio: «Non posso perché non ho abbastanza denaro».

 

Questo perché la disponibilità di denaro viene vista come meno discrezionale, meno controllabile dall'individuo rispetto alla disponibilità di tempo: e quindi asserire di non avere tempo è un po' come confessare - sgarbatamente - di non avere voglia.

 

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