Marco Lillo per “il Fatto Quotidiano”
Dopo 21 anni Niccolò Amato si è potuto finalmente togliere la soddisfazione di puntare il dito sull’uomo che decise la sua cacciata da capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel giugno 1993: il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel cambio di vertice non era uno dei tanti ribaltoni ministeriali ma determinò un “cedimento dello Stato alla mafia”, come ha detto ieri Amato.
Le sue parole sono cadute come pietre nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla Corte di assise di Caltanissetta, in trasferta a Roma per il quarto processo per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Amato ha scandito: “Io considero ci sia una macchia per le istituzioni quando si accerta che il responsabile dell’Amministrazione Penitenziaria (lo stesso Amato, ndr) viene cacciato dall’oggi al domani e questo avviene in relazione e dopo una lettera della mafia, che era il mio nemico, lettera che non mi viene portata a conoscenza”. In quella lettera anonima al presidente della Repubblica, i familiari dei boss reclusi chiedevano la sua cacciata.
“Le ragioni per le quali io dovevo andare via – ha spiegato Amato – le ho capite dopo proprio attraverso la conoscenza di questa lettera del 17 febbraio 1993 che contiene giudizi molto duri e minacce nella quale la mafia dice anonimamente al presidente Scalfaro: ‘Manda via il dittatore Amato e gli squadristi al suo servizio’. Questa lettera non mi è stata mai fatta conoscere e doveva essermi fatta conoscere”.
Amato è indignato perché “subito dopo l’arrivo di questa lettera il massimo rappresentante istituzionale di questo Paese (il presidente Scalfaro, ndr) che avrebbe potuto chiamare il presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi o il ministro della Giustizia Giovanni Conso, chiama invece il capo dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni – un testimone lo riferisce testualmente – e gli dice: ‘Basta Amato!’. Io credo che questo sia un fatto straordinariamente fuori delle regole.
Se qualcuno si è seduto al tavolo (della trattativa, ndr) io non lo posso sapere – prosegue Amato – ma oggettivamente al di là delle responsabilità c’è stato un cedimento dello Stato alla criminalità organizzata”. Amato ricorda che il regime carcerario: “Improvvisamente viene enormemente ammorbidito. Queste cose sono state fatte da giugno del 1993, dopo che io sono stato cacciato, e io non le avrei mai fatte”.
Vittorio Mangano in tribunale nel 2000
La corte ieri ha ascoltato anche la versione di Luciano Violante sui retroscena dell’audizione saltata di Vito Ciancimino in commissione Antimafia. Nel ’92 era stata sponsorizzata dall’allora colonnello Mario Mori. Poi Violante è tornato su un episodio accennato in un’intervista radiofonica nel 2010: “Tra il 1994 e il 1996, quando ero vicepresidente della Camera, Vittorio Mangano mi scrisse una lettera in cui chiedeva di incontrarmi. Vennero anche dei suoi parenti – ha aggiunto – che parlarono con un mio collaboratore insistendo affinché io avessi un colloquio con Mangano. Un colloquio che non ho mai avuto”.
Il Fatto, dopo l’udienza, ha chiesto a Violante se la scelta di non parlare con lo “stalliere di Berlusconi” fosse dettata dal clima di pacificazione che si era creato tra il Pci-Pds-Ds e Berlusconi . Violante ha replicato: “Se lo avessi incontrato, sarei addivenuto a una richiesta di Mangano e allora sì che sarei andato verso la pacificazione”. Al Fatto che gli faceva notare: “Così non sapremo mai se Mangano volesse dirle qualcosa sui suoi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi”, Violante ha replicato: “O le cose si fanno seriamente o non si fanno. Perché dovevo incontrare Mangano? Io facevo il vicepresidente della Camera nel 1995. Non mi sono mai pentito di non averlo incontrato. Nella vita non bisogna essere curiosi ma seri”.
Violante ha parlato anche dello strano incontro con il generale dei carabinieri Francesco Delfino alla fine del 1992, in merito all’arresto di Totò Riina che poi avvenne nel gennaio 1993. “Nelle vacanze di Natale del 1992 – ha raccontato Violante – il generale Delfino mi telefonò dicendo che voleva venirmi a parlare di una cosa delicata. Mi disse che un sottufficiale della zona di Verbania durante una perquisizione aveva trovato un soggetto (il mafioso poi pentito, Balduccio Di Maggio, ndr) che aveva una pistola non dichiarata e che gli disse che poteva aiutarli a trovare Riina.
Delfino si disse certo di arrestare Riina. Io lo consigliai di andarne a parlare con Giancarlo Caselli, già nominato procuratore di Palermo, anche se non aveva preso servizio”. L’arresto di Balduccio Di Maggio, che poi portò i carabinieri da Riina, avvenne però non a dicembre ma a gennaio. E quando il 19 gennaio 1993, dopo l’arresto di Riina, La Repubblica scrisse che Violante era stato informato da Delfino “passo passo”, l’allora presidente dell’Antimafia dettò alle agenzie una smentita tanto ampia quanto vaga per negare di avere incontrato Di Maggio, senza dire però di avere incontrato Delfino.