Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”
È il ritratto di un assassinio che ha cambiato Israele per sempre. Amos Gitai torna alla Mostra di Venezia con un potente atto d’accusa contro il fanatismo religioso e politico, che vent’anni fa armò la mano di un giovane studente di Legge di 25 anni. Tre colpi di rivoltella, e il premier Itzhak Rabin morì.
Ma ciò che farà scoppiare un putiferio, quando il film (in gara) Rabin, the Last Day uscirà in Israele, è il ruolo controverso che esercitò l’attuale leader Benjamin Netanyahu. Il quale nelle manifestazioni di quei giorni, in cui la pace con i palestinesi sembrava a portata di mano, incitava i suoi sostenitori «a riversarsi nelle piazze» e a «difendere Gerusalemme».
Ecco Rabin che accusa il suo avversario politico di «fare discorsi che mi discreditano, e ha alle spalle il fotomontaggio che mi ritrae in divisa da ufficiale nazista». Per la giornalista Fiamma Nirenstein, indicata dall’attuale leader conservatore come futura ambasciatrice d’Israele in Italia, «è insensato sostenere che Netanyahu abbia avuto parte, sia pure ideologica, nell’omicidio di Rabin».
primo ministro benjamin netanyahu
Il killer di Rabin è stato solo il grilletto, «per questo — dice il celebre regista israeliano — non è lui il centro del mio film. La teoria del complotto fu sostenuta dall’estrema destra, che si volle lavare le mani dal senso di colpa per avere spinto al gesto omicida. La società per strani motivi è stata generosa con lui, tra quattro-cinque anni uscirà di prigione, e gli hanno permesso di fare un figlio».
Il clima politico in Israele era arroventato. Rabin, l’uomo del dialogo, offrì il petto «ai rabbini lunatici, ai coloni estremisti e ai parlamentari di destra, che non furono attivi nell’omicidio, ma felici nel vedere demolito, da una campagna terroristica, il suo progetto politico». Immagini d’epoca mescolate a quelle di fiction: «Non ho inventato nulla, tutto è documentato», dice il regista che ieri è stato salutato dall’ex presidente Napolitano, alla Mostra per la proiezione serale.
Quei vecchi filmati sono scolpiti nella pietra. Peres, all’epoca ministro degli Esteri, ricordava «la propaganda feroce, Yitzhak veniva ritratto in una bara con scritto: “Qui giace Rabin”. Sapevamo che in caso di elezioni probabilmente non avremmo vinto, ma non eravamo disposti a cedere. Senza l’assassinio di Rabin avremmo avuto sicuro una situazione più stabile”».
La commissione che indagò sull’omicidio aveva un mandato limitato alla scena del crimine. Vengono fuori, se non le complicità, le negligenze. Era d’uso che l’auto di Rabin avesse una via di fuga dalle occasioni pubbliche: quella volta, dice l’autista, non ci fu alcun piano d’emergenza; per la polizia lo studente agì da solo; il responsabile della sicurezza nella piazza, in cui «si aprirono dei varchi» e si spararono i tre colpi di rivoltella, contro la prassi ebbe l’incarico all’ultimo momento.
E soprattutto il consulente legale del governo archiviò per insufficienza di prove il ruolo dei fanatici religiosi che additarono Rabin come «nemico del popolo», invocando «gli angeli della distruzione per ucciderlo». Fu convocata una psicologa a quegli incontri farneticanti: paragonò Rabin a Hitler, «è un megalomane, uno schizofrenico che ha perso il contatto con la realtà». Rabin aveva congelato gli insediamenti dei coloni: ciò era contrario al concetto teologico affiorato dopo la vittoria militare del 1967, secondo cui, per costruire una grande Israele, bisognasse incoraggiare l’espansione del territorio. «Ma Israele è nata da un progetto politico, non religioso», ricorda Gitai.
«Italia e Israele sono simili — dice ancora l’autore —, possiamo essere brutali e sofisticati... Anche voi avete avuto un tipo corrotto, kitsch e volgare, non a caso amico di Netanyahu. Oggi in Israele c’è uno scivolamento dell’opinione pubblica, rischiamo di isolarci dal resto del mondo». Il caso Rabin è il JFK israeliano. Ma rispetto all’America di Kennedy, «noi dopo 20 anni ancora viviamo con il risultato della sua morte».