Lucio Caracciolo per “la Stampa”
L'umiliante sconfitta degli Stati Uniti d'America in Afghanistan è anche nostra e degli altri paesi europei integrati nella costellazione a stelle e strisce. Disastro inscritto nella sua stessa origine: la cosiddetta "guerra al terrorismo", ideologia priva di basi strategiche su cui Washington ha impiantato la sua risposta all'11 settembre. Si consideri solo la bizzarra scelta di elevare una tecnica - il terrorismo - a soggetto nemico. O l'altrettanto curiosa decisione di vendicare l'attacco saudita-pakistano alle Torri Gemelle invadendo l'Afghanistan.
Quanto di meno razionale si possa immaginare. Spiegabile ma non giustificabile con l'emozione di quei giorni, quando l'opinione pubblica americana reclamava una rappresaglia devastante, degna del Numero Uno che all'epoca torreggiava senza sfidanti sul pianeta. Avversari che la "guerra al terrorismo" ha contribuito a imbaldanzire. La Cina specialmente ringrazia. Si aggiunga l'insipiente servilismo di alcuni alleati Nato, italiani compresi, che per dimostrarsi utili al capo che ne aveva immediatamente rifiutato l'offerta di soccorso ("la missione determina la coalizione, non il contrario") decisero poi di piantare radici nelle sabbie mobili afghane.
Alcuni sinceramente illudendosi di proiettare quel paese poverissimo - già cuscinetto e/o poligono di tiro nei grandi giochi delle potenze imperiali - verso i nostri standard di civiltà. Esempio di come le velleità da "missione civilizzatrice" classiche dei colonialismi europei siano sopravvissute alla loro fine. Risultato: venti anni di occupazione senza sbocco, nella logorante perpetuazione di una postura insensata, mentre migliaia di mercenari e quasi altrettanti soldati regolari occidentali, tra cui 53 italiani, morivano per nulla.
AEREO CON GLI ITALIANI ATTERRATO A ROMA
E con loro molti più afghani. I superstiti, giovanissimi uomini e donne per i due terzi minori di 25 anni, si ritrovano oggi sotto il dominio incontrollato degli "studenti dell'islam". I quali hanno invece seguito, con crescente scaltrezza, un copione fin troppo facile. Coperti dai loro burattinai pakistani. Con la nostra orgogliosa perseveranza abbiamo inguaiato noi stessi e di riflesso gli americani, che pure ci hanno sempre considerato irrilevanti. Sino alla fine, quando gli ultimi marines sono scappati dimenticandosi degli "alleati".
Ma questa non è una novità. E' diritto consuetudinario, tanto più cogente perché non scritto, che l'egemone usa arrogarsi. La caduta di Kabul, ultimo tassello della presa talibana sull'intero Afghanistan, comprese le aree del Nord e dell'Est originariamente refrattarie ai jihadisti oggi prontamente consegnatesi ai vincitori, sta provocando alcuni smottamenti geopolitici nella regione.
Di questi i più visibili paiono la sconfitta dell'India causa allargamento all'intero Afghanistan della sfera d'influenza del Pakistan (peraltro strutturalmente vacillante, con le sue circa 160 testate atomiche) e la facilitazione del corridoio cinese verso Oceano Indiano (porto di Gwadar) e Mediterraneo via Afghanistan-Pakistan. Sulla Russia gravano invece gravi incognite, tali da spingere Mosca a stringere patti informali di controassicurazione con Kabul rispetto a rischi di infiltrazione jihadista nel suo "estero vicino", financo nelle sue regioni meridionali esposte all'islamismo militante. Auguri.
AFGHANISTAN - LANCIO DI SCARPE E SASSI CONTRO L ESERCITO
Su scala globale, molto dipenderà da Washington. La sconfitta viene addolcita alla Casa Bianca inscrivendola nello sforzo complessivo di ridurre la sovraesposizione in teatri secondari o in prolungata sedazione - tra cui spicca lo spazio euromediterraneo - per concentrarsi nel contenimento di Cina e Russia.
Ma anzitutto per concentrarsi nella riabilitazione di casa propria: ne consegue la "geopolitica della classe media", basata sullo scansare le crisi internazionali per sanare invece le fratture socio-culturali domestiche varando piani economici iperkeynesiani in cui l'amministrazione Biden conta di investire fantastiliardi. Scelta accompagnata dalla richiesta agli "amici e alleati" - atlantici in testa - di rafforzare il presidio delle rispettive aree di competenza.
talebani nella base aerea di bagram
Di qui una possibile salutare conseguenza, anche per noi: invece di battere bandiera a casaccio in giro per il mondo, addestrando e armando i nostri futuri nemici solo per ostentarci serventi alla causa del Superiore e ottenere l'esatto opposto di quanto proclamato, potremmo finalmente concentrare le nostre scarse risorse, non solo militari, nelle aree di immediato interesse.
Con la benedizione di Washington, o almeno dei suoi apparati meno disorientati. La priorità italiana è lo Stretto di Sicilia, non quello di Taiwan. E' il deserto del Sahara con le proiezioni saheliane, non quello del Rigestan, il "paese delle sabbie" afghano. Sono i disputati rilievi balcanici con i loro santuari jihadisti, non lo Hindu-Kush. Carta canta. Basta leggerla.