Massimo Franco per il Corriere della Sera
La metafora della «tenda» sta diventando pericolosamente virale. Da quando Romano Prodi, fondatore dell' Ulivo, ex premier ed ex presidente della Commissione europea, ha raccontato di avere piantato una tenda simbolica vicino al Pd, intorno al partito di Matteo Renzi è spuntato un vero e proprio camping. Ma non si tratta di un accampamento costruito da dirigenti in sintonia con la leadership renziana: semmai è il contrario.
Sono «tende» tirate su da chi si sente in una sorta di limbo, con un piede fuori e uno dentro: spiazzato politicamente ma non ancora sicuro di dovere andare altrove. Sono minoranze che per adesso aspettano di capire se nel «giglio magico» prevarrà l' idea di una formazione tagliata su misura sul leader, senza la possibilità di spazi per i critici; o se il Pd sopravviverà. Ma si comincia a considerare seriamente la possibilità di una nuova rottura: un po' voluta, un po' subìta.
Qualcuno sta già trattando per uscire; altri sperano che alla fine prevalga un progetto più inclusivo. A settembre si dovrebbe capire se sta per consumarsi la seconda scissione in pochi mesi: alla vigilia di un voto regionale in Sicilia che si presenta come una sfida proibitiva; e a pochi mesi da elezioni politiche destinate a ridisegnare i rapporti di forza in Parlamento. «Vedo un pericolo serio.
È vero che per il momento lo strappo è stato rinviato. Non è scongiurato, però», spiega uno dei dirigenti storici del Pd. «E la mia sensazione è che Matteo lo stia sottovalutando. Non ha ancora capito che, se ci fosse un' altra scissione, il partito non reggerebbe». Non essere riuscito a ottenere le elezioni anticipate ha reso il vertice più assertivo verso il governo di Paolo Gentiloni. Ha acuito la sindrome del complotto contro il segretario; e acuito la voglia di un' altra resa dei conti.
Nella cerchia renziana più stretta, la prospettiva della scissione è vista con una punta di irritata rassegnazione; e in parte anche come una liberazione da oppositori interni vissuti come una fastidiosa zavorra. Esponenti del governo come il ministro Luca Lotti e la sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, tendono a vedere l' uscita dal Pd del capo della minoranza più consistente, il Guardasigilli Andrea Orlando, solo come una questione di tempo: sembrano non chiedersi più «se» andrà via ma solo «quando».
E questo nonostante Orlando ripeta che cercherà fino all' ultimo di rimanere e di scongiurare la seconda scissione; e che terrà aperto da dentro il Pd un canale di dialogo con la formazione nascente dell' ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, perché comunque bisognerà tornare a parlarsi.
Insomma, l' incognita è se almeno in una parte del vertice si stia lavorando per provocare la rottura o per evitarla. Nell' attesa, il «camping» democratico si allarga. Si fanno strada il timore e il sospetto che il vertice punti a sostituire i segretari non renziani nei congressi provinciali dopo l' estate: un assaggio di quello che avverrebbe nelle liste per il Parlamento. La guerra interna che si sta combattendo a livello locale, dall' Emilia Romagna alla Calabria, viene considerata una controprova della resa dei conti in incubazione.
Forse si tratta di paure esagerate, sebbene le reazioni alle critiche di personaggi della maggioranza come il ministro Dario Franceschini siano state dure, perfino ruvide. La domanda è se sia frutto degli spigoli caratteriali di Renzi, di una strategia che non esclude un secondo trauma, o di entrambi.
In questo caso la prospettiva, a sentire gli avversari, sarebbe di un segretario tentato a fine estate di archiviare il Pd per lanciare in modo esplicito il proprio partito.
Una forza agile, fedele, magari intorno al 15-20 per cento ma in grado di far valere il proprio peso nelle trattative per il governo, in un Parlamento senza maggioranze: sebbene a Bersaglio Mobile su La 7 Renzi abbia ribadito di volere il 40 per cento «per governare da soli»; e dal vertice si smentisca qualunque ipotesi di scissione e si ricordi che a ottobre si celebrerà il decennale della fondazione del Pd: un' occasione per ricucire, non per lacerare. Il problema sarebbe solo di evitare «un congresso permanente» e di rimettere in discussione una strategia e una leadership confermate appena due mesi fa.
Dunque, la situazione rimane in bilico: nulla è scontato. Lo stesso Renzi forse intuisce che un partito destinato a perdere altri pezzi viene punito: i sondaggi forniscono più di un indizio.
C' è chi gli ha fatto notare che, ponendo il limite dei tre mandati parlamentari, rischia di accelerare le dinamiche centrifughe. «Quando Mino Martinazzoli annunciò questa regola per il Partito popolare negli Anni Novanta, in pochi giorni si ritrovò la scissione del Ccd di Pier Ferdinando Casini», ricorda uno dei protagonisti di allora. E evoca il terrore di centinaia di deputati e senatori quasi certi di non essere ricandidati.
Ma il tema è ancora più di fondo. La convinzione è che se dovesse prevalere la spinta a escludere le minoranze e dunque a facilitare un altro strappo, non esisterebbe più il Pd. L' uscita di Orlando potrebbe portare con sé quasi per inerzia quella di Franceschini e dell' altro ministro, Graziano Delrio, finora leali alleati del segretario. Prodi pianterebbe la sua «tenda» sempre più lontano dal Pd.
L' incontro di ieri a Bologna con Pisapia e Orlando può essere vista come una conferma.
La somma di questi corpo a corpo non promette riconciliazioni, semmai strappi progressivi. Ma l' esito prevedibile è che alla fine non ci sarebbero più il partito, opposto agli scissionisti entrati nell' orbita della nebulosa di Pisapia: ci sarebbe la metamorfosi renziana di ciò che resta del Pd, e dall' altra parte un nuovo Ulivo.
Il «camping» diventerebbe un vero agglomerato con ambizioni e consistenza almeno pari a quelli del partito d' origine. Ma Renzi, se vuole, è ancora in tempo per impedirlo. Il problema è questo: se vuole.
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