Francesco Bei per “la Repubblica”
Matteo Renzi e Massimo D Alema
L’accusa è quella di «tradimento ». Il tribunale sarà allestito nella sala congressi di un hotel dietro villa Borghese. La giuria sarà quella dei mille delegati d’assemblea del Pd. Matteo Renzi promette d’essere un pubblico ministero impietoso contro quella «vecchia guardia» che, a suo avviso, ormai manovra apertamente per far saltare il banco. «Devono sapere che stanno scherzando con il fuoco - avverte il premier alla vigilia dell’appuntamento -.
D Alema regala a Renzi la maglietta di Totti
Perché noi intendiamo andare avanti, ma se ci verrà impedito “loro” saranno additati davanti alla pubblica opinione per aver portato il paese nel baratro. D’Alema vorrebbe la crisi del mio governo e la nascita di un “tecnico”. Pensa di trattarmi come Berlusconi nel 2011. Ma le cose non sono come tre anni fa. Se cado, si va al voto». Questa improvvisa escalation di toni tra la segreteria Renzi e la minoranza ha una ragione vicina e un retroterra lontano. La ragione vicina risale a mercoledì, all’ormai famoso voto in commissione affari costituzionali della Camera che ha mandato sotto il governo grazie a voti dei “dissidenti” democratici. Le versioni che circolano in parlamento a mezza bocca sono due, totalmente inconciliabili.
Mentre la minoranza sostiene che il ministro Boschi era stata avvisata di non forzare la mano, anzi le era stato consigliato di accantonare il punto dei senatori a vita proprio perché non c’era accordo, i renziani raccontano tutta un’altra storia: «C’era stato un incontro prima della seduta e “loro” avevano promesso di non mettere mai e poi mai in difficoltà il governo in commissione.
Poi in aula avrebbero votato contro, ma in commissione no. Anzi, era venuta proprio da “loro” l’idea di sostituire quei membri della commissione che, eventualmente, si fossero trovati in un dissenso tale da impedirgli il voto sulle proposte della maggioranza ». Lo scambio insomma sarebbe stato questo: lealtà in commissione, mano libera in aula (dove i voti della minoranza non sono determinanti). «Invece - prosegue il renziano - ci hanno pugnalato alle spalle».
Il punto dunque è questo. Per Renzi la minoranza ormai si comporta come un partito nel partito, a nulla sono valsi i ripetuti voti negli organismi dirigenti del Pd per indurli a rispettare la disciplina di gruppo. Per questo il sospetto che stia avanzando strisciante il vecchio progetto di scissione è tornato ad affacciarsi a largo del Nazareno. Dove danno in uscita per primo Pippo Civati, a fine gennaio, poi forse Stefano Fassina e qualche dalemiano.
Di certo c’è che oggi l’ex rottamatore della prima Leopolda salirà sul palco di Bologna insieme a Sel per lanciare il suo manifesto in dieci punti, rivolto a tutto ciò che si agita a sinistra del Pd. Ieri Civati era in piazza con la Cgil e sabato prossimo, a Genova, sarà di nuovo a un comizio insieme a Vendola. Un’agenda che i renziani tengono d’occhio.
Stefano Fassina e Matteo Orfini
Quanto agli altri della minoranza - la rabbia per i toni ultimativi e «autoritari» del premier è l’unico sentimento comune per il momento prevale l’attendismo. Una scelta tattica, per capire il gioco di Renzi sul Quirinale.
Dove davvero la minoranza, grazie al voto segreto, potrà fare la differenza e influire pesantemente sulle scelte. Così come su legge elettorale e riforme costituzionali, entrambe a forte rischio. Un bersaniano come Nico Stumpo invita i renziani a non cercare la prova di forza sulla legge elettorale: «Il Mattarellum non glielo voterebbe nessuno, né Lega, né Berlusconi né 5 Stelle. Con i grillini ci parlo, so come la pensano». Se tutto dovesse precipitare non resterebbe che il Consultellum, «ma a quel punto non credo che a Renzi convenga andare al voto. Con lo sbarramento al 2% chissà quante liste possono nascere...».
In questo clima, è facile prevedere che l’assemblea di domani si trasformi facilmente in una resa dei conti. Bersani ci sarà, così come Rosy Bindi, Cuperlo ed Epifani. Proprio l’ex segretario alle minacce di Renzi su una total disclosure sulle passate gestioni della “ditta”, risponde a brutto muso: «Magari tirasse fuori i bilanci della mia segreteria, io non ho niente da nascondere». Per la verità il premier distingue l’atteggiamento di chi, come Bersani o Epifani, «vuole essere coinvolto sulle scelte, ma non trama », rispetto a quello di altri.
Uno su tutti: Massimo D’Alema, il nuovo nemico che palazzo Chigi ha messo nel mirino. All’ex presidente del Consiglio si attribuiscono progetti di sovvertimento generale del quadro. Il disegno sarebbe quello di un altro governo, guidato magari da un tecnico alla Padoan (proprio il nome di Padoan sarebbe stato fatto dal centrista Mario Mauro ad alcuni senatori della minoranza Pd) per rassicurare i mercati in caso di crisi di governo.
Un gioco rischioso, secondo Renzi, perché la situazione internazionale in questo momento è molta diversa rispetto al 2011 e perché il ministro dell’Economia non si presterebbe. Allora tutte le cancellerie europee, gli Usa e le istituzioni finanziare mondiali si auguravano una rapida uscita di scena del Cavaliere, incapace di mantenere gli impegni sul risanamento. «Oggi invece tutto il mondo sta con il fiato sospeso sperando che Renzi ce la faccia. Mentre per “loro” è più importante far fuori l’usurpatore e far arrivare la Troika». L’ultima battaglia è appena iniziata.