Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Non ho mai visto mio padre in costume da bagno», racconta Mario Bernardini mentre è in cerca dei suoi ricordi di bambino. Il fatto, sa bene, è curioso perché suo papà, Sergio Bernardini, è stato un simbolo della Versilia, capace di trasformare uno scampolo di mare piuttosto distante da tutto — specie negli anni Cinquanta — nel centro di ogni cosa, almeno per lo spettacolo.
Questo perché, proprio lì, aveva fatto nascere un locale entrato nella storia: La Bussola. «Mio padre era un visionario — dice —. L’obiettivo della sua vita era stupire il pubblico. Era quasi una mania». Tanto che ora, il documentario in onda il 21 giugno in prima serata su Rai3 a lui dedicato, si intitola La Bussola - Il collezionista di stelle .
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Quando ha capito che suo padre non faceva un lavoro come gli altri?
mina sergio bernardini la bussola
«Mi rendevo conto che tutti conoscevano La Bussola. Lui voleva colpire il suo pubblico con gli spettacoli più mirabolanti: viaggiava spesso per convincere gli artisti. Un giorno, avrò avuto 10 anni, io e mio fratello lo avevamo accompagnato in aeroporto: doveva andare a Parigi e Londra. Lì, sul momento, ci disse: venite con me».
Il primo concerto organizzato da suo padre alla Bussola fu quello di Carosone.
«Aveva preso il locale che esisteva già da due anni: non funzionava. Carosone era una star. Per convincerlo fece un lungo pressing sulla moglie: le mandava rose tutti i giorni. Carosone suonava a Milano per una settimana e mio padre per una settimana andava a vederlo: si sedeva al tavolo, lo ascoltava e se ne andava. Di giorno mandava i fiori. L’ultima sera, a fine concerto, lo invitò a bere un bicchiere di champagne: parlarono, poi lo fece salire in macchina e lo portò da Milano in Versilia».
Non demordeva, insomma.
«Mai. Gli fece trovare La Bussola illuminata. “Signor Carosone, faremo grandi cose”, gli disse. E la solita frase».
Quale?
«“La cifra non è un problema, la metta lei”».
Quanto fu?
«Allora i cantanti prendevano 60 mila lire a serata. Mio padre ne offrì 190 mila. Il costo di un appartamento di allora. Aveva rotto il mercato».
Da lì, furono tutti successi.
«Sì, ma dal primo all’ultimo spettacolo non ha mai guardato alla cassa. Per lui il godimento era osservare il pubblico e pensare subito dopo a come andare oltre».
Come è riuscito a far arrivare alla Bussola, a Marina di Pietrasanta, così tante star, anche internazionali?
«Louis Armstrong, Aretha Franklin, Paul Anka: tutti passati dalla località Le Focette. Si sentivano tutelati da papà, amava gli artisti. Quando viveva con i genitori, ogni tanto andava a trovarlo Buscaglione e facevano serata suonando...mio nonno usciva di casa col fucile per farli smettere».
Quindi era anche artista?
«Io l’ho sentito solo suonare due note di contrabbasso. Però sì, suonava, anche assieme a Piero Angela».
Come mai scelse di fare il suo locale in Versilia?
«Diceva che la Versilia era la sua Las Vegas. La geografia era una cosa relativa per lui, nato per sbaglio a Parigi: mia nonna era la balia dei figli dei fratelli Lumière. Il suo era un laboratorio dove gli artisti erano liberi di esprimersi, non a caso anche De André si convinse a cantare in pubblico per la prima volta lì. Mina sarebbe diventata grande comunque, ma papà la lanciò».
Il suo ultimo concerto è stato a Bussoladomani.
«La sua storia è legata a doppio filo con quella di mio padre. Si diceva fosse la sua amante. Ricordo una telefonata di papà che mi avvertì: se il tg parla di me sono tutte cavolate. Avevano un rapporto viscerale, ma come amici».
Anche con Celentano.
«Altroché. Per via del suo abbigliamento particolare papà lo aveva scambiato per un bagnino. Aveva dei sandali, una canottiera, pantaloni strappati. Andò da mio padre e gli disse: “Salve, le presento il rock, cioè me stesso”».
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Ne è nato un rapporto speciale. Come con Gino Paoli.
«Un fratello per papà. Si sono conosciuti picchiandosi».
Prego?
«Papà si era inventato La Bussola on stage: un tour di artisti nei teatri. A fine serata c’era la passerella ma Gino disse: io non la faccio. Per mio padre era una mancanza di rispetto verso il pubblico e si sono menati. Poi però papà si mise a piangere, dispiaciuto per aver tratto male un artista.Da lì sono diventati fratelli e lo sono stati per tutta la vita».
Anche Renato Zero si è spesso esibito su quel palco.
«Era la regina: ha dedicato a mio padre una lettera, poco dopo la sua morte. Simulava una telefonata con lui».
Tra i momenti più difficili, la contestazione del ‘68 che investì proprio La Bussola.
LA BUSSOLA IL COLLEZIONISTA DI STELLE
«Esatto. Era stata mitizzata da chi identificava mio padre come il giullare dei ricchi. Lui che era nato partigiano e che mai aveva ceduto alle lusinghe politiche. La contestazione era stata pesante, ma mio padre era tosto: si era messo fuori, all’esterno, per difendere il suo locale. Diede anche una testata a un contestatore che voleva aggredirlo. Lo incontrammo anni dopo: fu lui a fermare mio padre e a mostrargli la cicatrice, dicendogli che aveva fatto bene».
Rivalità con La Capannina?
«Mai. Ogni tanto ci passava davanti per dire: guarda come è piena. La Capannina era il posto dove gli Agnelli andavano a fare l’aperitivo e sentire qualche orchestra, ma poi si spostavano alla Bussola per ascoltare Chet Baker, o Dario Fo, Gaber, Jannacci. Era come se papà avesse un suo libro di figurine degli artisti e li voleva tutti, ne era affamato».
Nel 1993 Sergio Bernardini è morto in un incidente.
«Aveva 68 anni. A quell’appuntamento sarei dovuto andare io. Diversi suoi amici mi hanno detto che non ce lo vedevano ad invecchiare. Ma rimane sempre qualcosa in sospeso. Anche grazie al documentario di Andrea Soldani, che ha tante testimonianze, sono convinto che se l’è goduta: ha avuto fino alla fine una sua visione da perseguire».
Una frase che le ripeteva?
«“Pancia a terra”. Ho anche ritrovato un biglietto in cui me lo aveva scritto: era certo che impegnandosi, i risultati sarebbero arrivati».
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