Maurizio Belpietro per la Verità
Qualcuno si è commosso ascoltando il discorso di mezzanotte del presidente del Consiglio. Domenica, a un' ora o poco più dalla diffusione dei primi dati del referendum, quello di Matteo Renzi da Palazzo Chigi è parso l' atto ufficiale di una resa, la presa di coscienza di una netta sconfitta.
In realtà il discorso del premier era già scritto. O meglio, il capo del governo ha recitato un copione già visto. Gli esegeti del renzismo hanno provato a mettere a confronto le parole pronunciate nel 2012, quando l' allora sindaco di Firenze fu battuto alle primarie da Pier Luigi Bersani, con ciò che l' altra sera ha detto a caldo, appena le proiezioni del plebiscito hanno cominciato a consolidarsi. Le frasi sono le stesse, le esortazioni a non mollare anche. Perfino il richiamo alla moglie Agnese è cosa già sentita.
Dico questo nell' ora in cui il presidente del Consiglio ha rassegnato le dimissioni per spiegare che la sua uscita di scena non è affatto da considerarsi definitiva. Sì, è vero, Renzi è stato battuto e la sfida che lui stesso aveva lanciato agli italiani e alle altre forze politiche si è risolta per lui nel modo peggiore. Tuttavia sbaglierebbe chi pensasse che il capitolo sia chiuso per sempre.
RENZI E LA SCONFITTA NEL REFERENDUM
L’ex premier (ora lo si dovrà chiamare così, anche se rimarrà in carica per il disbrigo delle pratiche ordinarie fino a quando qualcun altro sarà incaricato di formare un nuovo governo) è giovane e non si rassegnerà facilmente a passare la mano. Nonostante un anno fa, in vista del referendum, avesse dichiarato di essere pronto a mollare non solo la poltrona di Palazzo Chigi, ma anche la politica, Renzi non ha davvero alcuna intenzione di ritirarsi a vita privata. Lo ha minacciato, sperando in tal modo di spaventare gli italiani in un momento in cui nessun leader si segnala per capacità. Lo ha lasciato lui stesso trapelare nelle ore immediatamente successive alla batosta, consentendo che corressero le voci di sue dimissioni dalla segreteria del Pd.
In realtà nessuno di questi progetti è stato mai nei pensieri del presidente del Consiglio, il quale non solo non aveva mai contemplato la possibilità di una sconfitta, ma nemmeno aveva mai immaginato di trovarsi a un bivio, costretto a decidere se buttare la spugna o trincerarsi nel fortino della segreteria del Partito democratico. Alla fine, domenica sera, mentre la forbice tra favorevoli e contrari alla riforma della Costituzione si allargava sempre più fino a raggiungere un divario neanche immaginato dai sondaggisti, l’ex Rottamatore ha dovuto prendere in considerazione l’idea di rottamarsi oppure di riciclarsi.
matteo renzi dopo il referendum
E alla fine ha prevalso quest’ultima ipotesi. Nella ridotta del Nazareno l’ex premier medita un ritorno e una vendetta. Il suo, l’altra sera, non è stato un addio, ma un arrivederci. Infatti non ha mai neppure lontanamente lasciato trasparire l’intenzione di dimettersi oltre che dalla presidenza del Consiglio anche dalla segreteria del Pd. E dal discorso fotocopia è sparito qualsiasi riferimento a un ritorno a casa o a un abbandono della politica. No, quello di Renzi è un passo indietro in attesa di fare due passi avanti. Il suo mito è Amintore Fanfani, un uomo che Indro Montanelli soprannominò «Rieccolo». Perché l’ex presidente del Consiglio è sì contro i doppi e tripli mandati, ma solo quelli degli altri, non certo i suoi. Dunque, prepariamoci a rivederlo presto in attività per riprendersi la scena.
maria elena boschi dopo il referendum
Del resto, che questo sia il suo disegno lo si capisce da almeno un paio di indizi. Il primo è il testo diffuso via Facebook da Maria Elena Boschi, la passionaria della riforma costituzionale. Dopo la botta di domenica la ministra grandi riforme ha annunciato di essere al lavoro per servire le istituzioni, sottolineando che presto si discuterà di come ripartire: più che un congedo, una minaccia. L’altro elemento che induce a credere che quello di Renzi non sia un commiato è l’insistenza delle voci di un incarico per formare il nuovo governo a Pier Carlo Padoan o a Piero Grasso.
Un ministro dell’Economia e un presidente del Senato che certo non farebbero ombra all’ex premier, ma che anzi potrebbero tenere il posto in caldo in attesa di una sua resurrezione. Del resto, visto che ieri abbiamo evocato nel nostro titolo Napoleone, messa da parte la statura (quella politica, ovviamente), che non è minimamente paragonabile, anche Bonaparte ci riprovò. Volete dunque che il nostro non ritenti nella speranza di essere più fortunato?