Giuseppe Pipitone per il Fatto Quotidiano
Chi comanda adesso fa il nome di chi comandava prima. Chi comandava prima non ci sta: e invita a rivolgersi a chi il potere lo tiene in mano adesso. Che quella della Lega fosse la storia di un partito animato da feroci lotte intestine era noto. Ed è anche comprensibile che gli scontri sotterranei diventino più violenti ed evidenti quando l’argomento è legato ai 49 milioni di fondi pubblici ottenuti con una truffa ai danni dello Stato. Mai però il conflitto era arrivato a essere esplicitato sui giornali. E con la faccia di due pesi massimi del Carroccio di oggi e di ieri: Giancarlo Giorgetti e Roberto Maroni.
Che non corresse buon sangue tra l’ex governatore della Lombardia e il potente sottosegretario era cosa nota. Basta andarsi a rileggere l’intervista rilasciata da Maroni a La Stampa nei giorni successivi all’indagine per corruzione sul sottosegretario Armando Siri. “Il vero problema non è Siri, ma Giorgetti“, aveva detto a sorpresa l’ex ministro dell’Interno, focalizzando l’attenzione mediatica sul Richelieu di Matteo Salvini. Che aveva replicato lapidario: “Maroni gufa un po’, sta cercando di rientrare in gioco“. “La verità è che più di Richelieu, Giorgetti somiglia a Mazzarino. È l’unico vero politico di tutta la storia della Lega, dopo Bossi”, dice un vecchio e importante esponente del Carroccio al fattoquotidiano.it.
Cresciuto all’ombra del senatùr, arrivato al vertice del partito già ai tempi della secessione della Padania, Giorgetti è rimasto in sella anche durante l’interregno di Maroni, quando riuscì a farsi nominare tra i saggi di Giorgio Napolitano. “Poi ha capito che il leader del futuro era Salvini, che a tirare sarebbe stato il nazionalismo non la Padania. E si è riposizionato per tempo, eliminando uno a uno i nemici interni. Maroni lo odia per questo. Perché ha fatto a lui quello che lui aveva fatto a Bossi”, continua la stessa fonte.
In questo senso è facile intravedere una serie di messaggi trasversali anche dall’ultimo botta e risposta a distanza tra i due. Il solitamente riservato Giorgetti ha convocato una conferenza alla sala Stampa estera per rispondere – tra le altre cose – anche una domanda sugli ormai stranoti 49 milioni di euro. “Che fine hanno fatto quei soldi? Tutti i bilanci sono certificati e pubblici da quando divenne segretario Roberto Maroni, poi le inchieste possono andare avanti anche per decenni… finirà anche questa”, ha detto l’highlander del Caroccio. Una dichiarazione che può suonare pacifica e minimalista a tutti, tranne che al diretto interessato.
Maroni, infatti, sa bene che il tesoretto lasciato nelle casse della Lega da Bossi è Francesco Belsito comincia a evaporare durante i suoi quindici mesi al vertice del partito di Alberto da Giussano: nel 2011 a bilancio era iscritto un patrimonio da 46 milioni, nel 2017 è sceso a 4,5 milioni. Che fine hanno fatto quei soldi? Sono semplicemente stati spesi. E i bilanci – come dice Giorgetti – sono stati certificati dalla Pwc, società di revisione ingaggiata proprio da Maroni per diradare ogni ombra su via Bellerio. Il problema, semmai – come segnalava l’ex revisore Stefano Aldovisi in un esposto alla procura depositato alla fine del 2017 – è capire come siano stati spesi. Come ha raccontato ilfattoquotidiano.it, proprio durante la gestione Maroni alcune voti nei bilanci – pubblici e certificati – esplodono: dai contributi alle associazioni, ai mai chiariti “oneri diversi di gestione“, fino alle spese legali.
Sarà anche per questo che a poche ore dalle dichiarazioni di Giorgetti, il settimanale l’Espresso anticipa i contenuti di un’intervista a Maroni. Oggetto del colloquio? Ma ovviamente gli ormai notissimi 49 milioni di euro. L’ex governatore, ovviamente, non fa cenno alle parole del sottosegretario ma si focalizza su un passaggio molto più tecnico: la mancata costituzione di parte civile del Carroccio nei processi a Bossi. “Sulla storia della truffa da 49 milioni la Lega era parte lesa, perciò i giudici avevano accolto la costituzione di parte civile che avevo fatto io. Così facendo saremmo stati considerati parte offesa e avremmo tutelato la Lega da azioni risarcitorie.
Poi avremmo dovuto chiedere noi i soldi ai condannati. Ovviamente non avrei mai obbligato Bossi a ridarci alcunché, ma in questo modo avrei salvaguardato il partito”. Maroni, che è tornato a fare l’avvocato nello studio del fidato Domenico Aiello, in pratica ricorda che di quella truffa ai danni dello Stato erano accusati Bossi e Belsito. Se la Lega fosse rimasta parte civile, nessuno oggi avrebbe chiesto al Carroccio quei 49 milioni, oggetto delle ricerche delle procure Genova, Milano e Bergamo. Solo che quella costituzione di parte civile “poi Salvini l’ha ritirata, e il partito oggi paga le conseguenze di questa scelta”, ricostruisce sempre l’ex governatore. Tradotto: per colpa di Salvini ora il partito deve restituire quei soldi. Dunque chi chiede notizie dei 49 milioni è con l’attuale segretario che deve parlare, non con con quello passato.
giancarlo giorgetti virginia raggi
E per meglio specificare questo passaggio Maroni cita un episodio noto ai protagonistri delle faide interne al partito. “Io – dice sempre al settimanale – ho denunciato per infedele patrocinio Matteo Brigandì, lo storico avvocato di Bossi e della Lega, c’è una causa in corso. Proprio lui è andato da Salvini a chiedere di revocare la costituzione di parte civile, facendogli sottoscrivere una scrittura privata che impegna il partito a ritirare qualunque pretesa di risarcimento. Io non l’avrei fatto“. La vicenda lè quella della famosa scrittura privata siglata il 26 febbraio 2014 da Salvini, da Bossi, da Brigandì e dall’allora segretario amministrativo Stefano Stefani. Rappresenta la pace tra la Lega del passato e Lega del futuro. Brigandì rinunciava a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario sottoscrivevva una serie di impegni, tra i quali spicca il punto numero sette: “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”. È il processo d’appello che si è concluso con l’estinzione delle condanne di primo grado per il senatùr e per il figlio Renzi. I Bossi, in pratica, sono stati salvati dalla mancata costituzione di parte della Lega.
“Io – dice Maroni – avevo detto a Salvini che non ero d’accordo. Ma lui ha fatto una scelta diversa. Diciamo che è stato mal consigliato”. E chi l’ha mal consigliato? Probabilmente Giorgetti, visto che all’epoca dei fatti, alcuni dei protagonisti di questa storia erano intercettati dalla Dia di Reggio Calabria. “Tu hai l’obbligo di recuperare quello che è il patrimonio che il partito ha perso, non è che uno, solo per chiudere una transazione positiva perché altrimenti diventiamo noi anche compartecipi di questo reato.
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Guarda che ti assumi una responsabilità personale molto importante se fai una cosa del genere. Riflettici, eh”, dice l’avvocato Aiello, fidato di Maroni, a Stefani. Che risponde: “Non sono solo io“. Poi l’allora tesoriere sembra lasciarsi convincere: “Chiamo anche Giorgetti e glielo dico. Perché è una cosa troppo delicata”. Non si sa se Stefani abbia chiamato Giorgetti. Di sicuro due giorni dopo Salvini firma quell’accordo con Brigandì e Bossi. E oggi Maroni è a Salvini e Giorgetti che scarica ogni domanda sui 49 milioni. E sul sottosegretario aggiunge: “Ha un ruolo strategico, è l’uomo delle relazioni con imprese e finanza. Adesso anche della diplomazia, in particolare con gli Usa. È il consigliere più ascoltato da Salvini. Dopo le elezioni la tenuta del governo dipenderà soprattutto da lui”. Il messaggio è stato lanciato.
Roberto Maroni e Umberto Bossi a Pontida maroni sul palco con bossi a pontida GIORGETTI A NEW YORK matteo salvini giancarlo giorgetti giancarlo giorgetti matteo salvini malagò giorgetti salvini giorgetti giancarlo giorgetti massimo garavaglia giancarlo giorgetti giorgia meloni GIORGETTI MATTARELLA