Salvo Palazzolo per “la Repubblica”
Ventiquattro anni dopo, è ancora l’estate dei misteri. Sfilano tutti nell’aula bunker dell’Ucciardone dove sono imputati, per la prima volta insieme, ormai da tre anni, i capi della mafia siciliana e uomini delle istituzioni. Il cancelliere della Corte d’assise li chiama uno per uno. «Riina Salvatore, Bagarella Leoluca, Cinà Antonino».
I mafiosi. «Mancino Nicola, Mori Mario, De Donno Giuseppe, Dell’Utri Marcello»: l’ex ministro dell’Interno, gli ufficiali del Ros, il senatore. Per la procura di Palermo sono i protagonisti di una trattativa che sarebbe iniziata nell’estate delle stragi Falcone e Borsellino. Con un intermediario d’eccezione, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. «Non ci fu alcuna trattativa — dice il generale Mori, chiedendo di parlare davanti ai giudici — nessuna negoziazione che presuppone un dare e un avere. Io volevo solo avere informazioni su Cosa nostra in quel momento drammatico».
È la difesa che l’ex comandante del Ros ha sempre ribadito in questi anni. Ora sintetizza: «Vito Ciancimino era una sorta di agente sotto copertura. Lui stesso aveva proposto di inserirsi, per conto dello Stato, nel sistema illegale degli appalti». Lo ribadisce anche l’ex colonnello De Donno, che iniziò i primi contatti con Ciancimino.
Quei dialoghi fra i carabinieri e il sindaco mafioso sono il cuore del processo, che proseguirà ancora per un anno. Mori risponde alle accuse del figlio di don Vito, che ha già deposto. Massimo Ciancimino sostiene che nel giugno 1992 Mori ricevette un “papello” da suo padre, il foglio con le richieste di Riina per fermare le stragi. Mori ribatte: «Mai ricevuto papelli. Il mio primo incontro con Vito Ciancimino fu il 5 agosto».
Il Capitano dei Carabinieri De Donno Caso Totò Riina
Ovvero, dopo le stragi Falcone e Borsellino. Poi, giù con un duro atto d’accusa: «Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino hanno creato una sorta di processo mediatico — dice Mori — Ha detto che suo padre era vicino a un esponente dei Servizi, un mediatore fra Stato e mafia: il fantomatico signor Franco. Prima, Ciancimino l’ha identificato nel prefetto Gianni De Gennaro, poi nel consigliere Ugo Zampetti, il segretario generale del Quirinale. Messinscena del tutto inattendibile».
È una lunga autodifesa quella di Mori. Il pm Nino Di Matteo, in aula con i colleghi Teresi, Del Bene e Tartaglia, sbotta: «Già nel processo per la mancata cattura di Provenzano, il generale aveva rifiutato di sottoporsi all’interrogatorio del pm. Anche in questo dibattimento abbiamo chiesto il suo esame, vedremo se accetterà di rispondere».
Perché di una «trattativa» e di un «papello» ha parlato pure Giovanni Brusca, il boss che azionò il telecomando della strage Falcone. Ha detto in aula: «A fine giugno 1992, Riina mi disse, ”lo Stato finalmente si è fatto sotto”. E mostrava soddisfatto un papello con una serie di richieste: dall’abolizione del carcere duro alla revisione dei processi». È il papello che non si è mai trovato.
Nell’aula bunker, la procura chiama a deporre un maresciallo dei carabinieri, Saverio Masi, oggi caposcorta del pm Di Matteo, sostiene di essere stato vicinissimo a quel documento. Racconta: «Nel 2005, durante una perquisizione a casa di Massimo Ciancimino, lo trovò il capitano Angeli, ma i superiori gli dissero di non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano». Parole che nei mesi scorsi hanno portato a una raffica di denunce e controdenunce.
Masi è stato anche condannato a sei mesi per falso ideologico. «Mi hanno impedito di fare indagini », si difende lui, e accusa: «All’epoca, fui allontanato da tutte le attività investigative che avrebbero potuto portarmi alla cattura di Provenzano. Nel 2004, incrociai anche un altro latitante, Messina Denaro, davanti a una villa di Bagheria. Feci una relazione di servizio, che i miei superiori mi chiesero di ammorbidire. Cosa che non ho fatto».