Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” - Estratti
(...) La solitudine di Joe Biden è quella del re sconfitto, condannato a diventare un apostrofo tra due storiche presidenze Trump, umiliato pur avendo vinto nel 2020, restìo a chiamarsi fuori quando il partito lo sfiduciò e capace, in quel 21 luglio che sembra molto più lontano di soli 109 giorni fa, di un arrocco che di fatto garantì la nomination alla sua vice Kamala Harris in un atto di generosità che per anni gli rinfacceranno.
Si era chiamato fuori per senso di responsabilità dopo aver schivato i silenziosi coltelli che volavano tra il Campidoglio e l’ala Ovest della Casa Bianca, Nancy Pelosi di due anni più vecchia di lui regista del quieto smottamento di consensi, attentissima però a non far trapelare il suo candidato che comunque non era Harris. E anche per questo Biden agevolò la successione alla sua vice.
Poco importa ormai se il prescelto della californiana (d’adozione, ha imparato il mestiere dal papà sindaco di Baltimora e deputato) Pelosi fosse davvero l’azzimato Gavin Newsom che non sarà simpaticissimo con quei capelli ingellati e il sorriso scintillante da attore di soap opera ma da governatore d’uno Stato, la California, che se fosse indipendente sarebbe la quinta economia mondiale portava indubbia competenza e un quarto di secolo in meno di Biden sul passaporto.
Ora scatterà la faida interna alle correnti — i governativi e i barricaderi, Neswom e Ocasio-Cortez — mentre Trump riderà di loro dalla Casa Bianca.
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Quando Biden entrò alla Casa Bianca (facendo surf con nonchalance su quei sette milioni di voti di vantaggio su Trump), la rivista Time lo ritrasse sulla copertina in un disegno che fece il giro del mondo, pensieroso in uno studio ovale vandalizzato dai trumpiani del 6 gennaio che avevano da poco preso d’assalto il Campidoglio.
«Day One», giorno uno, l’unico titolo, in piccolo. L’ultimo giorno, invece, Joe lascerà il bigliettino d’auguri rituale all’uomo che aveva spodestato nel 2020 e che da allora gli dà del demente, del fallito, dello zombie. Il più grande Lear del Novecento, Robert Stephens, con un’intuizione che ha fatto la storia del moderno teatro shakespeariano, decise che il vecchio re non doveva prendere in braccio la sua Cordelia: doveva provare a farlo, ma senza riuscirci. Piegato dall’età e dalla malattia e dal dolore.
SANDERS CONTRO PARTITO DEMOCRATICO, SCONFITTA NON È SORPRESA
(ANSA) - Il senatore indipendente Bernie Sanders attacca il partito democratico per la sconfitta di Kamala Harris. "Non dovrebbe essere una grande sorpresa che un partito democratico che ha abbandonato la classe media scopra di essere abbandonato dalla classe operaia. Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento. E ha ragione", ha detto Sanders. "Gli interessi finanziari e i consulenti ben pagati che controllano il partito impareranno qualche lezione da questa disastrosa campagna?", ha aggiunto.
DEMOCRATICI SOTTO SHOCK, DITO PUNTATO CONTRO BIDEN
alexandria ocasio cortez e bernie sanders
(ANSA) - I democratici sotto shock rivivono l'incubo del 2016, e stavolta il day after è se possibile ancora più doloroso. La ferita della sconfitta di Kamala Harris è ancora aperta, ma la resa dei conti nel partito è già scattata. Il maggior indiziato per la batosta è Joe Biden: il presidente, è la tesi di molti fatta trapelare anche da una fonte anonima della campagna di Harris, ha "una grossa responsabilità" per essersi ostinato a restare in corsa per mesi, costringendo i democratici a rimuoverlo quasi di forza dopo la debacle nel duello tv contro Donald Trump.
Responsabilità condivisa peraltro, secondo gli osservatori, anche dei vertici dell'asinello, incapaci di opporsi al presidente un anno fa, quando non gli impedirono di ricandidarsi. Harris, nei poco più di tre mesi a sua disposizione, ha cercato di fare il miracolo scontrandosi con molti papaveri del partito (compreso forse lo stesso Biden) che avrebbero preferito delle mini primarie piuttosto che la sua investitura.
E le tensioni interne hanno alimentato quelle fra lo staff di Harris e la campagna del suo capo, sulla quale la vicepresidente si è per forza di cose dovuta appoggiare per la rincorsa. Le incomprensioni sono state evidenti fin dall'inizio, con molti fedelissimi del presidente costretti a tirare la carretta per una candidata in cui non hanno mai creduto.
Da parte sua anche Kamala ha commesso diversi errori: pur cercando di distanziarsi da Biden - uno dei presidenti meno amati, precipitato ad appena il 39% di consensi -, non è riuscita a prenderne davvero le distanze e ad imporsi come alternativa credibile, nonostante per lei si siano spesi soprattutto alla fine personalità del calibro di Nancy Pelosi (forse quella che ha spinto di più per il siluramento di Biden) e Barack Obama.
Per l'ex presidente in particolare, la debacle di Harris è un duro colpo che ridà fiato a chi lo accusa da tempo di non essere stato capace di formare una nuova generazione di leader dem, malgrado gli otto anni trascorsi alla Casa Bianca. E non va meglio a un altro padre nobile del partito, Chuck Schumer, al quale viene tra l'altro imputata la conquista della maggioranza in Senato da parte dei repubblicani. In questo clima di veleni, i critici più maligni osservano comunque come alcuni all'interno del partito potrebbero non essere particolarmente delusi dalla sconfitta.
Alcuni si spingono ad immaginare una certa 'soddisfazione' covata da Hillary Clinton, che non avrebbe sopportato vedere un'altra donna rompere quel soffitto di cristallo che era il sogno della sua vita.
Altri invece pensano ai papabili aspiranti democratici alla Casa Bianca per il 2028, dalla governatrice del Michigan Gretchen Whitmer a quelli di California e Pennsylvania, Josh Shapiro e Gavin Newsom: una vittoria di Harris li avrebbe bloccati per otto anni, ora invece possono guardare con più speranza al futuro. Anche per loro però il problema cruciale resta quello di rifondare un partito che non sembra più in grado di parlare agli americani.