Sebastiano Messina per ''la Repubblica''
Se anche Luigi Di Maio giura di aver messo da parte ogni riserva e ogni gelosia e dice "mi fido ciecamente di Giuseppe Conte", se perfino Alessandro Di Battista, il subcomandante Dibba, dichiara che "lui è un galantuomo", il presidente del Consiglio non dovrebbe avere dubbi sul suo futuro.
beppe grillo luigi di maio alessandro di battista contro la legge elettorale
E invece un dilemma continua a rimbalzare nei pensieri di Conte, anche ora che alcuni sondaggi gli assicurano il gradimento di due italiani su tre: all'uscita dal tunnel coronavirus, i cinquestelle lo seguiranno davvero sulla strada che lui sta silenziosamente tracciando, giorno dopo giorno - quella di un pragmatico riformismo light, accanto agli ex nemici del Pd - oppure si faranno affascinare dalle sirene del populismo giustizialista, tornando al settarismo delle origini in nome della perduta identità?
Che il premier abbia grandi progetti per il suo avvenire politico non è un mistero. "Non mi vedo novello Cincinnato", diceva già a dicembre. Vuole restare, dunque, ma per far cosa? Certo non aspira a fare il "capo politico", un ruolo che non lo attira per nulla, e infatti i rapporti con i ras grillini li tiene Casalino, che di tutti conosce la vita e soprattutto i miracoli di cui hanno beneficiato. Conte ormai vede se stesso come uno statista chiamato dalla Storia a gestire la nostra ora più buia. Come Churchill, che gli piace citare. O come De Gasperi, di cui l'estate scorsa volle incontrare la figlia, Maria Romana.
Ma anche se lui si considera un cattolico di sinistra, come Moro, oggi il suo modello sembra piuttosto Giulio Andreotti, che guidò sette governi senza mai neanche pensare di candidarsi alla segreteria della Dc.
Se infatti al Divo Giulio riuscì l'impresa di governare sia con la destra liberale di Malagodi sia con il Pci di Berlinguer, Conte è passato dall'alleanza con Salvini a quella contro Salvini senza lasciare Palazzo Chigi neanche per un giorno. E sia prima sia dopo s'è dimostrato un abilissimo mediatore, troncando e sopendo, smussando gli angoli e aggirando ostacoli che a occhio nudo parevano insormontabili.
beppe grillo davide casaleggio giuseppe conte 2
Dal giorno in cui è nato il suo secondo governo (era il 5 settembre) il presidente del Consiglio ha capito che il suo futuro politico dipende da quella che una volta sembrava una missione impossibile: portare definitivamente il Movimento 5 Stelle nel campo del centrosinistra. E a questa impresa lavora, neanche tanto sotterraneamente.
Una volta sarebbe stato fermato da Beppe Grillo o da Davide Casaleggio. Ma ora le cose sono cambiate. Il fondatore del Movimento è stato il primo a benedire l'alleanza con gli ex "Pdmenoelle", e ora si dedica nel suo dorato iperuranio all'utopia dell'economia circolare. Quanto al giovane Casaleggio, ha perso da tempo il suo potere di burattinaio invisibile.
La conferma si è avuta qualche giorno fa, quando ha riunito in videoconferenza i notabili pentastellati (da Crimi a Lombardi, da Taverna a Toninelli), vedendosi bocciare all'unanimità la richiesta di eleggere subito, online, il nuovo "capo politico". E il riemergente Di Maio è arrivato a dirgli in faccia - via Skype - che affidare alla piattaforma Rousseau la scelta dei parlamentari si è rivelata alla prova dei fatti una scelta fallimentare. Un doppio schiaffo, un tempo inimmaginabile.
Ma Conte sa che il vero pericolo, per lui, è la rivincita del fondamentalismo qualunquista. Dell'estremismo degli irriducibili (No-Tav, No-Tap, No-Ilva, No-Autostrade, No-Mes). Magari sotto l'ombrello di carta di Marco Travaglio, il cerberino susloviano che oggi monta di guardia davanti alla porta di Conte sparando con la mira di un cecchino contro chiunque osi alzare un sopracciglio, ma poiché si ritiene - ancora più di Grillo - il vero custode dell'ortodossia grillina, lui concepisce l'alleanza con questo Pd "irredimibile" come un'opera di salvezza dei peccatori, i quali dovrebbero "camminare in punta di piedi, con gli occhi bassi e il capo chino". Una visione diametralmente opposta a quella di Conte, definito da Zingaretti "un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste".
LUIGI DI MAIO MARCO TRAVAGLIO GIUSEPPE CONTE
Oggi dunque tutti sostengono il premier, e il premier ha bisogno di tutti. Ma presto arriverà il momento delle decisioni. Per il Movimento. Per i suoi trecento parlamentari. E per Conte, che spera di essere la conferma vivente del motto di Prezzolini: "In Italia nulla è più definitivo del provvisorio".
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