Alessandro De Angelis per huffingtonpost.it - Estratti
(...) Le regionali sono solo il più classico dei casus belli. Il tema è ben altro ed è squisitamente politico: per vincere il suo congresso o quel che è, Conte deve mantenere la sua autonomia, da leader di un pezzo del populismo italiano. Non può apparire un cespuglietto accondiscendente.
E più Renzi mena le danze più ha necessità di rafforzarla: “questione morale” (dunque Renzi) e guerra sono i punti non negoziabili appunto perché esistenziali.
Semmai è il Pd che deve accucciarsi su questo. E lo schema è ferreo perché è nel suo mondo che si gioca la ghirba, non nelle urne. Magari, si sarebbe detto una volta, è la logica del “tanto peggio, tanto meglio”, ma tant’è.
E di segnali ne erano già arrivati parecchi, sin da quando, dopo l’estate in cui Renzi è tornato king maker del campo largo, Conte aveva parlato di una “ferita” aperta. Oggi, di fronte a un andazzo che non è mutato, è arrivato il de profundis, nella famosa Terza Camera di Bruno Vespa: “Il campo largo non esiste più, col Pd abbiamo un problema politico serio”.
Più che una minaccia, è una franca constatazione, anche perché non è che sul resto, dalla questione internazionale ai tanti dossier della discordia – immigrazione e sicurezza, cittadinanza, Rai, eccetera eccetera – ci siano punti di convergenza e iniziative comuni che attestino una tenuta.
Insomma, è finita l’illusione ottica. Perché la verità è che il “campo largo” non è mai esistito. Nato per paura del voto ai tempi del Papeete, come formula e mito unitario ha avuto la sua fortuna quando un governo morente fu tenuto su dalla pandemia. Poi Renzi, che lo aveva fatto nascere, lo ha tirato giù, facendosi interprete del nuovo quadro internazionale segnato dalla sconfitta di Trump.
E infatti con Draghi il paese torna in asse dopo la sbornia filo-russa (coi militari negli ospedali) e filo-cinese (con la Via della seta). Non è un caso che l’irrigidimento di Conte, oggi, oltre che con la sua sfida interna, coincida con l’aria trumpiana che soffia nel mondo. Nel suo posizionamento c’è anche una scommessa sul futuro.
In mezzo, anni semplicemente buttati in una discussione politicista su nomi, formule e interpreti, fino al parossismo delle ultime settimane: Renzi, che aveva fatto cadere il Conte 2, diventa il primo sponsor di Elly Schlein, la quale, pur avendo vinto il congresso sull’anti-renzismo, lo lascia fare perché sogna palazzo Chigi. Morale della favola, la mina Renzi fa esplodere la mina Conte.
E patatrac, il re è nudo. E stupisce lo stupore in casa Pd, dove la notizia viene accolta con l’incredulità che si riserva a un imprevisto, dopo mesi in cui non si è messa in campo neanche un minimo di iniziativa degna di questo nome se non la retorica dell’unità contro la destra. Che peraltro ha rappresentato e rappresenta l’elisir di lunga vita per Giorgia Meloni, pur avendo il suo governo dei limiti, così come l’antiberlusconismo è stato l’elisir per Silvio Berlusconi. (...)
E nell’accusa sconsolata c’è la certificazione di una impotenza e la manifestazione di un calcolo drammaticamente sbagliato (la famosa linea “testardamente unitaria” di Elly Schlein). Quello secondo cui i Cinque stelle, in quanto costola della sinistra, sono destinati all’alleanza col Pd. Che poi le Europee avrebbero chiarito il “chi guida”. E a quel punto, ci sarebbe stata una spinta inerziale all’unità, sin dalle regionali, “contro la destra”.
Già, unità: come se stare uniti fosse un fine e non un mezzo per realizzare un progetto alternativo. E’ accaduto esattamente l’opposto, perché si è eluso il nodo di fondo che è proprio la costruzione di un progetto, largo, “per” l’Italia e non “contro”. Da offrire innanzitutto al paese e su cui aggregare le altre forze in un quadro di compatibilità. Non “chi guida” ma “dove si va”. Facendo discendere dalla direzione i compagni di viaggio. E invece: tanta propaganda identitaria, che nel frattempo ha esasperato la competizione e i distinguo a sinistra, e poca politica.
L’idea di una egemonia politica affidata ai numeri (io sono il partito più grande quindi guido) ha prodotto una clamorosa subalternità all’iniziativa altrui. Perché a questo punto rimettere assieme i cocci significa consegnarsi a Conte. Nella rottura odierna c’è un suo punto estremo di negoziazione: o si fa come dico io o bye bye (come alle scorse politiche). Di testardi ci sono innanzitutto i fatti (come diceva il compagno Lenin), che raccontano un capolavoro di strategia al contrario.
elly schlein giuseppe conte genova, manifestazione per le dimissioni di giovanni toti GIUSEPPE CONTE MATTEO RENZI - BY GIANBOY