Adriano Scianca per “La Verità”
La superstar del basket americano, Lebron James, si è vaccinata contro il Covid-19. E, sin qui, la notizia potrebbe avere un interesse relativo, almeno da queste parti. Più interessanti, tuttavia, sono le parole con cui l'asso dei Los Angeles Lakers ha motivato la sua scelta, rifiutandosi di indossare i panni del testimonial entusiasta e acritico della vaccinazione di massa, a differenza di tanti altri Vip: «Posso parlare per me stesso. Penso che ognuno debba scegliere di fare ciò che ritiene il meglio per se stesso e per la sua famiglia. Ero molto scettico sul vaccino, ma dopo essermi informato mi sono reso conto che non era soltanto la scelta migliore per me, ma anche per la mia famiglia e i miei amici».
Ma non chiedete a LeBron di lanciare appelli per l'inoculazione: «È importante capire che parliamo di scelte individuali che riguardano i nostri corpi, non di qualcosa di politico o sociale. Non penso di dovermi intromettere in ciò che altri reputano la scelta migliore per il loro corpo: ognuno fa ciò che ritiene il meglio per sé e per la sua famiglia».
Parole di buon senso, venate di dubbi e perplessità, che stonano nel coro parareligioso che ha accolto il vaccino come un elisir salvifico, la cui somministrazione va sostenuta con ogni mezzo. Lebron James non è, peraltro, solo uno dei più importanti sportivi del pianeta: si tratta di un personaggio pubblico noto per il suo impegno antirazzista e sostenitore attivo di Black lives matter.
Ma va detto che tutto il mondo dell'attivismo nero statunitense si mostra quanto meno tiepido nei confronti del vaccino, causando un cortocircuito non da poco nelle schiere dei «buoni». Qualche giorno fa, da Carmine's, un ristorante italiano nell'Upper West Side di Manhattan, tre donne nere del Texas sono state arrestate per aver aggredito una dipendente del locale, dopo che quest'ultima aveva considerato false le loro credenziali vaccinali, necessarie per accedere all'interno del locale.
La lite ha presto assunto connotazioni razziali e Blm ne ha approfittato per lanciare una campagna contro la natura «razzista» del pass. Chivona Newsome, cofondatrice della sezione newyorchese di Black lives matter, ha spiegato: «Non sono no vax, non sono un conservatore che guarda Fox News. Molte persone di colore non lo sono, semplicemente non si fidano di questo vaccino».
Spiegazioni che, da noi, verrebbero derubricate a paranoie antiscientifiche. Alla data del 21 settembre 2021, i vaccinati americani che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino e di cui era nota l'appartenenza etnica erano così suddivisi: quasi i due terzi erano bianchi (60%), il 10% neri, il 17% ispanici, il 6% asiatici, l'1% indiani d'America o nativi dell'Alaska.
E in effetti, secondo i dati diffusi dal Center for disease control and prevention, i neri americani hanno il doppio delle probabilità di morire rispetto alle loro controparti bianche. Ecco perché, per i gruppi antirazzisti, chiedere il green pass sarebbe «razzista»: percentuali alla mano, c'è molta più probabilità di trovarsi a fermare sulla porta di un locale un nero sprovvisto di certificazione vaccinale anziché un bianco.
Il punto, però, è che il gap vaccinale non si è creato per colpa dell'uomo bianco cattivo che ha deciso di lasciar morire gli abitanti dei quartieri neri, ma perché la popolazione afroamericana è più refrattaria alla vaccinazione rispetto al resto del Paese.
Lo spiegava efficacemente qualche mese fa Federico Rampini, su Repubblica: «Gli afroamericani si vaccinano molto meno della media nazionale, non perché siano discriminati, ma perché nei movimenti antirazzisti una sottocultura del vittimismo alimenta inquietanti teorie del complotto, come la paura che i black siano "cavie" degli esperimenti di Big Pharma».
Persino in carcere, secondo un'indagine del New England Journal of Medicine, la metà dei detenuti afroamericani rifiuta il vaccino per sfiducia verso le autorità carcerarie e sanitarie. L'origine di questa sfiducia affonda nelle contraddizioni del modello americano. In molti ricordano lo studio sulla sifilide di Tuskegee, dove le autorità dell'Alabama evitarono scientemente di curare i neri affetti dalla malattia per verificare gli effetti della sua progressione naturale su un corpo infetto non curato.
«All'improvviso», tuonava al Guardian Yolanda Corbett, una donna nera di Washington, «un Paese che ci ha letteralmente tenuto un piede sul collo per anni, e che anche durante la pandemia ha dimostrato di non avere alcun interesse a sostenerci collettivamente come esseri umani o come persone di colore, chiede di mettere la mia vita e la vita della mia famiglia nelle sue mani e di fidarci del fatto che vuol darci improvvisamente un vaccino che ci salverà».
Ed è forse recependo tali istanze che, quando Joe Biden, nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, invitò gli americani a indossare la mascherina per 100 giorni, la sua vicepresidente, Kamala Harris, precisò che non ci sarebbe stata «nessuna punizione» per i trasgressori. Tutte cose che solo chi ha il colore della pelle giusto può permettersi di dire.