Massimiliano Panarari per “la Stampa”
Più Catilinarie che parlamentarie. Almeno a giudicare dalla requisitoria del «Dibba furioso» nel video con cui ha illustrato le motivazioni della sua mancata candidatura.
E, nella fattispecie, si tratta, ancora più appropriatamente, di «Grillarie», dato che Alessandro Di Battista ha indirizzato il suo J' accuse innanzitutto contro il Co-fondatore, di cui «politicamente oggi non si fida», imputandogli di essere stato il principale sponsor dell'ingresso nel «governo dell'assembramento».
Cronache di un matrimonio che si era guastato già da parecchio, e aveva visto due personalità con una certa considerazione di sé - un'attitudine assai diffusa, e trasversale, nel paesaggio politico dell'«Età egolatrica» - impegnate a consumare l'antico idillio in un crescendo di diffidenze reciproche e falliti ricongiungimenti.
Il fuggi fuggi dalle parlamentarie costituisce un fenomeno generalizzato, che ha investito, tra gli altri, Rocco Casalino, finito pure lui, a quanto pare, nella black list di Beppe Grillo. Ma nell'elettorato pentastellato, alla vigilia di una prova elettorale che si preannuncia come l'ennesima (assai problematica) ordalia, era precocemente cresciuta l'attesa del ritorno salvifico del figliol prodigo. E, contestualmente, a montare era stata pure la preoccupazione dei vertici pentastellati per una figura giudicata troppo ingombrante, da mettere rigidamente sotto tutela e a cui imporre alcune "abiure", afferma sempre Di Battista, che nel video attacca frontalmente anche Roberto Fico e salva soltanto Giuseppe Conte.
BEPPE GRILLO E ALESSANDRO DI BATTISTA
Testimonianza di come nell'odierna atmosfera da Basso impero della fu formazione dell'«uno vale uno» tutto ruoti attorno alla sopravvivenza politica dei singoli e al nodo di una leadership monocratica, prevedibile - ancorché mai risolta - eredità di un partito prima bipersonale (quando Gianroberto Casaleggio era in vita), e poi personale del solo Grillo (giustappunto, il «padre padrone» a cui «Ale» non intende "sottomettersi").
Di qui, la scelta di rimanere in partita sul suo terreno di gioco preferito, quello della disintermediazione e dell'appello neoplebiscitario al popolo antisistema. E di continuare ad adottare lo schema di gioco prediletto: quello del "cavaliere dell'ideale antagonista", solo contro tutti e sdegnato da ogni inclinazione compromissoria degli ex compagni di lotta diventati "politici di professione". Con una novità, però, da sottolineare: ovvero, i numericamente non così trascurabili commenti negativi sui social dei fan, che lo incolpano, in buona sostanza, di sottrarsi alla lotta e di essere un "parolaio" (come da buona tradizione degli pseudorivoluzionari...).
Di Battista - a tratti in trance solipsistica da volontà di potenza - solleva, comunque, questioni centrali riguardanti il grillismo e la sua informe «forma-partito»; e lo fa avvolto in un format comunicativo, a lui molto consono, di vittimismo passivo-aggressivo, tipico di quello che si potrebbe chiamare il «populismo chiagne e fotte» (chiedendo venia per l'etichetta un po' eccepibile sotto il profilo del rigore politologico). Resta così - come da sua autodefinizione - un «attivista politico e reporter».
Almeno per il momento, perché l'impressione è che abbia voluto saltare il turno - pur in presenza delle resistenze interne ricordate nel videomessaggio - per una ragione di fondo: quella di attendere lungo la riva il passaggio dello zombie (copyright: Grillo) a 5 Stelle. E, dopo la sua implosione, di raccoglierne infine i cocci per rifondarlo, facendone in tutto e per tutto il "suo" Movimento.