Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “La Stampa”
Questa mattina Biden salirà per l'ultima volta da presidente sul palco dell'Assemblea generale dell'Onu. Quello che doveva essere un discorso a metà fra il bilancio, toni personali e la consegna a una nuova generazione di leader della difesa del diritto internazionale e della necessità del multilateralismo, rischia di venire calpestato e messo ai margini dalla cruda realtà di un Medio Oriente nella spirale di morti e distruzione.
Il clima stesso potrebbe essere ben diverso dal passato.
Due funzionari statunitensi hanno riferito alla Cnn che c'è il timore che questa settimana onusiana possa dare fiato e forza alle rivendicazioni palestinesi e a una retorica antisraeliana magari spingendo altre Nazioni a muoversi per riconoscere ufficialmente – come alleati storici degli Usa, come Spagna, Irlanda e Norvegia qualche mese fa – lo Stato palestinese.
È probabile che giovedì Mahmud Abbas, presidente dell'Anp, trovi terreno fertile per le sue rivendicazioni. Giovedì è in agenda anche l'intervento di Netanyahu, che ha già posticipato l'arrivo a New York di un giorno e che comunque non ha confermato se sarà alle Nazioni Unite visti gli scenari bellici in casa.
Biden arriva a New York con l'incubo dell'escalation in Medio Oriente diventato realtà e con la condanna e la preoccupazione del Dipartimento di Stato di Israele per la chiusura dell'ufficio di Al-Jazeera a Ramallah.
«Siamo in una situazione in cui il rischio escalation è più acuto», ha ammesso anche Jake Sullivan consigliere per la Sicurezza nazionale riferendosi alle dinamiche innescate dall'attacco di Hamas del 7 ottobre che di volta in volta hanno visto la situazione regionale avvicinarsi a scenari di conflitto espanso prima di ritirarsi.
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Ieri il presidente ha avuto un bilaterale con lo sceicco degli Emirati arabi uniti Mohamed bin Zayed Al Nahyan e i due hanno parlato anche della situazione a Gaza e del Libano.
«Il mio team è in costante contatto con le controparti (libanesi e israeliane, ndr) – ha detto Biden prima del vertice – e stiamo lavorando per una de-escalation al fine di consentire alle persone di rientrare nelle loro case in sicurezza».
Sino a pochi giorni fa ogni ragionamento del Consiglio per la Sicurezza nazionale era imperniato su un concetto: il cessate il fuoco a Gaza è la garanzia migliore per fermare le tensioni nel Nord. Ma nei giorni scorsi anche all'interno dell'Amministrazione si sono udite voci pessimistiche su qualsiasi intesa, almeno entro l'insediamento di un nuovo governo Usa, ovvero gennaio 2025.
Il senatore Chris Coons, il più vicino a Biden, ha ammesso che «la dinamica fra Israele e Hezbollah è diventata sempre più tesa, e sono preoccupato […] Un ex funzionario assai vicino all'Amministrazione, in un colloquio con La Stampa, però ha ammesso che «l'influenza americana su Israele è assai minore di quel che la gente pensi».
Tanto che, ha proseguito, «non credo ci sarà, vinca Trump o Harris, un grande cambiamento nella politica Usa, la realtà è che abbiamo sempre meno peso su alcuni alleati».
Che Washington sia preoccupata lo si intuisce anche dalla decisione del Pentagono di inviare "rinforzi" in Medio Oriente. Si parla di «piccole unità» che andranno ad affiancare il gruppo guidato dalla portaerei Lincoln.
[…] L'America ora vede più concreta non solo l'escalation, ma anche il rischio per la sicurezza delle sue truppe nella regione. Ryan ha detto che «abbiamo più capacità oggi nella regione di quante ne avevamo il 14 aprile quando l'Iran condusse l'attacco con droni e missili su Israele».
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