Alessandro Barbera per “la Stampa”
La pacchia - chiamiamola così - non poteva durare all' infinito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione di Madrid e Lisbona sul Recovery Fund: sì alla quota di contributi a fondo perduto, no ai prestiti. E così all' ultima riunione del Consiglio della Banca centrale europea tre governatori hanno preso la parola per squarciare il velo dell' ipocrisia.
Il ragionamento dei dissidenti è più o meno questo: perché Spagna e Portogallo possono permettersi di rifiutare quei fondi? E perché l' Italia non sente il bisogno di attingere al salva-Stati? Ciò è possibile grazie alla Bce, che si sostituisce al mercato e acquista titoli che diversamente pagherebbero ben altri rischi e interessi. Per quanto tempo ancora possiamo permetterci questo stato di cose? Fino a quando far crescere il debito pubblico di questi Paesi?
La domanda - a quanto pare formulata per prima dal governatore olandese Klaas Knot - ha fatto calare il gelo fra i presenti. Tutti gli analisti sono ormai certi che alla prossima riunione del dieci dicembre Christine Lagarde confermerà la necessità di allargare il piano anti-pandemia di acquisti oltre la scadenza del 30 giugno 2021.
Una data cruciale anzitutto per l' Italia, che con un debito al 160 per cento è vicino alla soglia non sostenibile senza forti tassi di crescita dell' economia. Eppure la vicenda di Spagna e Portogallo ha tracciato una linea difficile da cancellare. Fino a pochi giorni fa si scommetteva su un allargamento del piano anti-pandemia (Pepp) per 500 miliardi di euro, un programma che - questa la caratteristica principale - permette gli acquisti in maniera discrezionale, fuori dalla regola che impone di non superare la quota di capitale detenuta da ciascun Paese.
Ora nelle conversazioni telefoniche fra i governatori si discute su quanto sia utile concentrarsi solo su questa misura: c' è chi preme perché la nuova liquidità venga messa anche a disposizione del boccheggiante sistema bancario europeo.
Secondo quanto ricostruito dalla Stampa nella prima linea dei dissidenti non ci sarebbe il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, tuttora allineato ad Angela Merkel e alla necessità di non mettere in difficoltà i Paesi mediterranei in un momento così delicato.
christine lagarde jens weidmann
Eppure i segnali di disagio iniziano a notarsi anche a Berlino. Li si coglie nelle risposte ad un' intervista apparsa ieri sera sull' Handesblatt a Isabel Schnabel, l' economista tedesca voluta dalla cancelliera nel consiglio direttivo della Bce.
Le decisioni prese a livello europeo sono sufficienti? C' è bisogno di fare altro? «E' importante che i piani di aiuto vengano portati fino in fondo, in particolare il Recovery». E ancora: siamo vicini alla creazione di un' Europa federale?
«E' cruciale che i fondi vengano utilizzati per gli investimenti necessari a stimolare la crescita. Diversamente l' integrazione europea farebbe passi indietro e gli euroscettici potrebbero vendicarsi». Come sempre per comprendere i banchieri centrali occorre cogliere anzitutto quel che non dicono. Qui il non detto è rilevantissimo: prima di discutere se e come allargare il piano di acquisto titoli della Bce, la Commissione europea e le cancellerie devono mettersi d' accordo e rendere disponibili gli aiuti a disposizione per i singoli governi.
Persino i più rigoristi oggi ammettono che la spesa pubblica in deficit è l' unica strada per evitare il peggio. Ma c' è un limite non valicabile. Gli economisti lo chiamano «finanziamento monetario dell' economia», ovvero la creazione di liquidità necessaria a sostenere la spesa pubblica in deficit. Fino a pochi anni fa per i tedeschi era un tabù, ora vorrebbero almeno salvare le apparenze. Il sostegno di Francoforte non durerà all' infinito, e per l' Italia prima o poi tutto questo sarà un guaio.