Antonio Scurati per www.corriere.it
Sottile è la linea che separa la bellezza dall’obbrobrio. È una linea tracciata dalla mano dell’uomo. Nella frana che mercoledì ha isolato Amalfi si legge un emblema e un monito per l’intero Paese. Non solo perché lo smottamento ha cancellato un tratto della statale 163, meglio nota come Costiera amalfitana, forse la strada più bella d’Italia. Ma anche perché quella colata di detriti ci racconta chi siamo, da dove veniamo, cosa siamo diventati, chi potremmo ancora essere; ci narra della fragilità congenita negli organismi vocati non alla forza ma alla bellezza; ci ammaestra e ci ammonisce: affinché un paradiso si rovesci in un inferno non è necessaria la malvagità, è sufficiente il vizio del tirare a campare, del chiudere un occhio, della mano che lava l’altra.
Da queste parti, come in moltissimi altri luoghi d’Italia, spinta dalla necessità, l’opera sapiente dell’uomo ha redento una terra splendida e inospitale, strappando con il sistema dei terrazzamenti una possibilità di vita a una rupe erta sul mare. Ne è scaturita la bellezza di un «paesaggio vivente» che diviene nel tempo grazie alla cura ostinata e amorevole dell’uomo. Poi, d’un tratto, lì dove fino a ieri c’era l’idillio mediterraneo, ora si accampa l’orrido di una voragine fangosa.
Il lirismo deve, però, fermarsi qui. Sento già incombere su di me lo stereotipo del «Belpaese» che da sempre ci condanna a uno stato di minorità permanente. Dobbiamo avere il coraggio di rigettare la pessima retorica della «bellezza paradisiaca». Dietro la cartolina, Amalfi e la sua costa sono una realtà non solo fragile ma complessa, problematica, contraddittoria, per alcuni aspetti decadente.
Si contano a decine da queste parti negli ultimi anni le frane dovute a un dissesto idrogeologico che ha nel capillare micro-abusivismo edilizio, negli incendi dolosi, nell’abbandono dei coltivi, nella viabilità delirante, nella pessima gestione dei flussi turistici e nell’incuria le sue cause locali (e nel mutamento climatico quella globale).
L’eclissi simultanea delle civiltà contadina e di quella marinara sta trasformando la terra dove l’orto s’inventò giardino in una sterpaglia di rovi e serpi. L’inselvatichirsi della Costa d’Amalfi procede da anni inesorabile come una sorta di pandemia paesaggistica incontrastata. Mi fermo ancora perché avverto di nuovo l’ala della cattiva retorica battere su di me. Ora lo stereotipo che incombe è una variante del primo: il luogo comune dell’Italia «bella e sciagurata», un cliché forse ancora più dannoso di quello del «Belpaese» perché più scoraggiante, più complice.
È ora di finirla anche con l’autocompiacimento di chi scambia una cronica anemia morale mai curata con il crisma di un destino. La verità è che in Costiera amalfitana, come nel resto d’Italia, non manca chi si batte per la tutela paesaggistica (sovraintendenze e comitati civici), non mancano gli imprenditori illuminati che lavorano per un turismo sostenibile e consapevole, non mancano i cittadini che amano la propria terra, la propria gente, che ancora antepongono l’amor proprio alla logica illogica del saccheggio.
Io oso perfino sperare che siano ancora la maggioranza. E, allora, il giusto stato d’animo è quello che ci dovrebbe spingere a proclamare che non se ne può più del cinismo contrabbandato per esperienza del mondo, che non se ne può più dei noncuranti, dei furbi, dei corrotti e dei corruttori, dei faccendieri che non hanno mai fatto un bel niente in vita loro, dei piccoli speculatori in tempo di peste e dei cretini di successo, gonfi di fama e vuoti d’ingegno.
Il Presidente De Luca non ha ignorato la gravità dell’accaduto, chiedendo immediatamente lo stato di calamità. Bene. De Luca sa meglio di chiunque altro che calamità non significa fatalità. Il procuratore di Salerno ha dichiarato che ora comincerà «la stagione della demolizione delle costruzioni abusive». Benissimo. La aspettiamo invano da decenni questa stagione.
È giunto il tempo, qui come altrove, di farsi coraggio e di reincarnarci in un altro dei nostri tanti stereotipi nazionali, lo stereotipo virtuoso dell’Italia «bella e appassionata». Abbiamo bisogno non soltanto di un nuovo patto di Governo, ma di una nuova alleanza tra gli italiani e il Paese, tra gli italiani e se stessi. In questo strano dopoguerra che si annuncia alla fine della pandemia, è ora che si facciano avanti i tanti che vivono, lavorano e sperano per il meglio, con passione ardente.
Gli scienziati delle città futuribili vedono nella pandemia l’occasione per accelerare i processi evolutivi di cambiamento, il varco stretto in cui infilarsi per modernizzare; gli umanisti, abituati a ragionare in termini di lascito dei millenni, s’interrogano su cosa sia lecito ereditare del vecchio mondo e lasciare in eredità al nuovo.
Non c’è conflitto tra le due prospettive ma connubio. Luoghi simbolo, come la Costiera amalfitana, lo dimostrano: tornare a prendersi cura di questi luoghi significherebbe raccogliere quasi tutte le sfide concordate con la Commissione europea per l’erogazione del Recovery fund: migliorare la capacità di ripresa dell’Italia, sostenere la transizione verde e digitale, innalzare il potenziale di crescita dell’economia e la creazione di occupazione.
Ad Amalfi come altrove, transizione ecologica e digitalizzazione vanno assieme; mobilità sostenibile, competitività dell’impresa turistica e salute dei cittadini vanno assieme; ricchezza e cultura vanno assieme. La strategia globale del manager lungimirante e la mano callosa del contadino che ricostruisce il muretto di pietre a secco si muovono all’unisono. È davvero venuto il momento di farli incontrare. Sulle competenze e capacità di Mario Draghi, l’uomo cui probabilmente spetterà di guidarci in questo prossimo, strano dopoguerra, non vi sono dubbi. Mi auguro e gli auguro che sappia anche suscitare l’ardore dell’Italia migliore, quella bella e appassionata.
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