Mattia Feltri per la Stampa
SALVINI - DI MAIO - BERLUSCONI - RENZI
Finalmente ci siamo, quasi. A un mese e un giorno dalle elezioni, nel tempo fra l' ascesa al Quirinale e la ridiscesa, qualche cosa dovrà ben succedere, e subito. O quasi. E fra questi due avverbi - subito e quasi - c' è l' intera distanza fra le aspettative frenetiche e onnivore di noi spettatori e i tempi lassi della liturgia politica, così che in questo mese più un giorno pare si sia arrancato fra le strategie verbali di leader e semi-leader, nemmeno più tanto raffinate, fra piccole trappole quotidiane, offerte e rifiuti come di filarini ginnasiali. E invece una cosa è già successa, e seria.
Matteo Salvini ha fatto fuori Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio ha fatto fuori Matteo Renzi. Ci avevano provato i due - Berlusconi e Renzi - a tenere il centro del palco. Il 5 marzo, poche ore dopo la sconfitta, il primo aveva spiegato che il regista del centrodestra restava lui, e il secondo che di tanti errori commessi il peggiore era stato di non andare a votare nel 2017 (colpa di Sergio Mattarella), che lui a differenza di altri nel Pd aveva vinto nel suo collegio, e che si sarebbe fatto da parte soltanto dopo la formazione del governo, per evitare mani tese ai Cinque Stelle. Eccoli lì, l' uno e l' altro.
Nella notte fra il 23 e il 24 marzo, Berlusconi cede. Poche ore prima, Salvini aveva annunciato di votare Anna Maria Bernini alla presidenza di Palazzo Madama, e non il prescelto da Forza Italia, Paolo Romani. Sono i prodromi dell' alleanza con Di Maio, la coalizione è finita, dice Berlusconi. Macché. Per non restare tagliato fuori, accetta. In quella notte Berlusconi incassa dai suoi insulti e gesti di disprezzo, ma li incassa per cercare di rimanere in pista. Poi tocca di nuovo al Pd: resta senza questori e segretari d' aula, figure di potere in Parlamento, e non era mai successo in settant' anni di Repubblica che il secondo partito del Paese fosse trattato a quel modo.
Un balletto rapsodico e ipnotico: Salvini e Di Maio vincono a mani basse la prima partita. Ci sarebbe un solo motivo al mondo per fermarsi proprio ora? Il resto potrebbe sembrare tutto senza senso. Non sono trascorse ventiquattro ore dai risultati elettorali, e Di Maio e Salvini - naturalmente nel massimo rispetto delle prerogative del Capo dello Stato eccetera - rivendicano il mandato a formare il nuovo governo. Di Maio perché il suo è il partito con più voti. Salvini perché la sua è la coalizione con più voti.
Purtroppo né il primo partito né la prima coalizione hanno una maggioranza da proporre a Mattarella. Si inventano gimkane costituzionali, Di Maio dice che è aperto a discutere con tutti (e non vuole dire niente), Salvini che otterrà la fiducia su punti programmatici dai singoli parlamentari (e vuol dire ancora di meno). Ma su questi presupposti si inizia la lunga barzelletta del contadino che deve portare il lupo, la capra e il cavolo al di là del ponte.
Di Maio è aperto a discutere con tutti, ma non con Berlusconi, dice. Salvini è disposto all' appoggio di tutti, ma non del Pd, dice. E la contabilità si inceppa. Due semplici e comprensibili ostracismi, e i numeri non tornano più. Nessuna maggioranza è possibile, tranne che quella lanciata da Steve Bannon, ex capo stratega di Donald J. Trump, con sfrontatezza americana: Lega e Movimento Cinque Stelle, assieme. I numeri ci sono, e si rafforzeranno.
SCALATE A MANI NUDE
Noi qui a dare credito, almeno per dovere di cronaca, alle scalate a mani nude. Gustavo Zagrebelsky marcia in testa al gruppo d' intellettuali che vorrebbe un governo M5S+Pd. Dalla derelitta sinistra distaccata dal Pd si rimpolpa la prospettiva: M5S+Pd+LeU. Renato Brunetta (Forza Italia) butta lì un piccolo compromesso storico centrodestra+Pd (con premier Salvini, gulp! L' avance sfuma in venti secondi).
Si ipotizzano governi istituzionali, del Presidente, di scopo, di garanzia, e in una tale fumisteria la nostra giovane coppia prefigura il futuro. Di Maio se la ride ai vitalizi che «non avranno più scampo», al reddito di cittadinanza (sebbene non sia un reddito di cittadinanza) che sarà definito al primo Consiglio dei ministri; Salvini già sogna il primo def per ridurre le tasse (non al 15 per cento, non lo specifica più) e la poltrona giusta per sfollare gli immigrati.
IL PRIMO GIORNO DI LAVORO
La virtù dilaga, il presidente della Camera, Roberto Fico, il primo giorno di lavoro si muove in autobus perché i galloni non hanno annacquato la sua purezza. La collega del Senato, Maria Elisabetta Casellati, va in Liguria con un volo di linea perché nemmeno lei vola alto, vola alla quota degli altri.
Mara Carfagna rinuncia all' indennità di vicepresidente e annuncia che la devolverà alla tale Onlus, operazione che conclusa in dignitoso silenzio avrebbe mancato l' obiettivo: partecipare alla moda recente di rinunciare ai soldi, anziché guadagnarseli, e di offrire la rettitudine alla voracità del popolo. Tutto sembra compiersi, in nome del popolo e nella direzione del popolo. Da oggi si capirà se l' inverosimile è diventato verosimile.