Marco Palombi per il “Fatto quotidiano”
La trattativa andrà avanti fino all' ultimo minuto, ma trovare un accordo entro venerdì mattina pare assai difficile: la questione dell' Ilva di Taranto, insomma, passerà probabilmente dalla "roulette russa" del Tribunale di Milano, anche se alla fine, comunque vada, si arriverà all' uscita di ArcelorMittal. I giudici tra tre giorni dovranno decidere sul ricorso d' urgenza presentato dai commissari di Ilva contro il tentativo della multinazionale - che al momento è "affittuaria" degli impianti - di recedere dal contratto.
Le due parti avevano ottenuto, a dicembre, un rinvio della decisione dopo aver firmato un Heads of agreement, una sorta di base di trattativa per evitare la battaglia legale: come detto, nonostante sia passato un mese e mezzo, è difficile che si arrivi a un' intesa definitiva entro venerdì, quindi deciderà il giudice, anche sulla base degli elementi messi a disposizione dalla Procura di Milano, che sul caso Ilva - come si ricorderà - ha aperto un'inchiesta penale.
incendio all'ilva di taranto 3
Cosa può accadere? Se la decisione fosse a favore dei Mittal, la situazione per il governo si farebbe assai difficile: dovrebbe prendere in carico gli impianti in tempi strettissimi, fornendo la liquidità necessaria a sostenere il gruppo, e affidarsi a una lunga causa per ottenere un eventuale risarcimento. A Palazzo Chigi e al ministero dello Sviluppo, però, sono convinti di avere ottime ragioni e che il Tribunale concederà almeno la sospensione cautelare del recesso e, a quel punto, si dovrà trovare comunque un' intesa coi Mittal, ma da una posizione di relativa forza.
Il tavolo andato avanti in queste settimane, però, non ha fatto grandi progressi nel senso di una cooperazione tra il colosso dell' acciaio e la "mano pubblica". Gli inviati di Mittal non hanno finora fatto proposte accettabili: chiedevano 5mila esuberi, oltre ai quasi duemila già rimasti fuori nel 2018, e informalmente hanno fatto sapere che potrebbero, forse, scendere a tremila (cifra comunque inaccettabile per i sindacati).
Oltre ai licenziamenti, per tenersi le fabbriche chiedono uno "sconto" sulla cifra da versare allo Stato: nel 2017 vinsero la gara con un' offerta da 1,8 miliardi, di questi hanno versato circa 500 milioni e ora vorrebbero - tra defiscalizzazioni e altre diavolerie tecniche - pagare circa la metà degli 1,3 miliardi rimasti. Condizioni, come detto, inaccettabili per il governo, tanto più che non si accompagnano a maggiori investimenti per rendere "verde" (sia detto tra moltissime virgolette) l' acciaieria di Taranto.
Lo stallo è tale che ormai l' unica vera trattativa è su come far uscire Mittal da Taranto. O meglio, sempre che venerdì il giudice non dia ragione all' azienda, a che condizioni "liberarla" dall' ex siderurgico dei Riva. Alcuni passi sono già stati fatti: ad esempio il ricambio di tutta la prima linea di management proveniente da Arcelor, partita a ottobre con l' addio dell' ad Matthieu Jehl, sostituito da Lucia Morselli, e proseguita nei mesi successivi. I problemi irrisolti sono due: quanti soldi pretendere per liberare i Mittal e cosa fare dopo con le acciaierie. Partiamo dal vil denaro. Come Il Fatto ha già scritto, la multinazionale ha già avanzato una proposta in questo senso: un miliardo per poter andar via indenne.
Il punto è che non si tratta di fondi veri, ma della valutazione del magazzino riempito (500 milioni), della rinuncia a rivalersi sui 400 milioni di investimenti già fatti e dei 90 milioni di fideiussione depositati alla firma del contratto. Il governo, d' altra parte, chiede un miliardo "vero" tra penale per la rottura dei patti e le mancate manutenzioni degli impianti.
Alla fine i Mittal potrebbero accettare di pagare per andarsene (con tempi medio-lunghi e anche in una forma che, all' inizio, preveda una loro permanenza nella compagine sociale) ed evitare così un lungo e incerto contenzioso legale. Più complicato, invece, è capire cosa fare dopo con l' Ilva.
Il piano industriale del governo è ambizioso: senza perdersi nei tecnicismi, prevede l' uso di forni elettrici (oltre a quelli tradizionali) e materia prima pre-ridotta (meno inquinante) per arrivare a produrre almeno 8 milioni di tonnellate (il doppio di oggi) con un po' di cassa integrazione, ma senza esuberi strutturali. All' ingrosso è il piano di AcciaItalia, la cordata guidata dagli indiani di Jindal e da Cdp, che nella gara per Ilva fu sconfitta proprio da Arcelor. Chi dovrebbe realizzarlo, allora, questo piano?
Buio fitto: AcciaItalia non esiste più; Jindal ha firmato un accordo per l' acciaieria di Piombino (e il piano industriale è in ritardo di mesi); gli italiani tipo Arvedi non paiono avere le dimensioni per gestire Taranto; ad oggi non si sa neanche quale società pubblica potrebbe entrare in un' eventuale "newco" per l' Ilva. E a venerdì mancano tre giorni.