Mirella Serri per “La Stampa”
Che baruffa, a febbraio del 1960, nel salone dell'ambasciata italiana a Mosca surriscaldato dal clima di aspra contesa e di male parole. Nell'ambiente affollato di corrispondenti stranieri e di alti papaveri sovietici con il medagliere sul petto, appena entrato Nikita Chruscëv tracannò una flûte di bollicine e ringhiò: «Chi è che non vuole la pace?».
Poi attaccò l'Italia e il regime capitalista dove «è più intelligente chi ha più dollari. Nel regime socialista è più intelligente chi ha più intelligenza». Il capo dello Stato sovietico aggredì così Giovanni Gronchi, il primo presidente italiano in visita ufficiale in terra comunista.
Dato l'insuccesso, almeno apparente, di quel viaggio, Gronchi al rientro in Italia fu criticato per le sue «aperture» all'Urss. Era così? In un documento riservato del Presidium del Pcus, ritrovato negli archivi, i sovietici affermavano il contrario: Gronchi si era comportato in modo «leale» e la missione aveva avuto «un significato positivo per il miglioramento dei rapporti sovietico-italiani».
Non erano parole al vento: la visita di Gronchi favorì l'accordo dell'Eni di Enrico Mattei con l'Urss per la fornitura di petrolio. Anni dopo venne ratificato il contratto per la vendita all'Italia di gas sovietico e si avviò con la Russia la partnership che dura ancora oggi e per noi vitale e di cui si discute nelle sanzioni da infliggere a Vladimir Putin.
A ripercorrere le tappe del periglioso incontro-scontro, avviato fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale, con un compagno di strada assai poco affidabile come l'Orso russo è il libro ricco di documenti inediti (provenienti da archivi inglesi, francesi e italiani) di Antonio Varsori Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell'Italia repubblicana (Il Mulino).
Ci spiega il docente dell'Università di Padova che gli incontri, prima con l'Urss e poi con la Federazione russa, furono spesso costellati di dichiarazioni pubbliche, le quali raccontavano solo parte della verità, e di trattati commerciali segreti.
Questi ultimi in epoca postbellica erano stimati dai politici italiani non solo un tassello importante degli affari ma anche un percorso privilegiato per stringere intese politiche con un partner non sempre addomesticabile.
Così l'appuntamento conflittuale tra Gronchi e l'irascibile Chruscëv fu un connubio che includeva impegni riservati poiché il partenariato economico avveniva nel clou della guerra fredda, in momenti drammatici dell'escalation delle ostilità tra Est e Ovest. Si profilava la costruzione del muro di Berlino per impedire il passaggio tra le due Germanie. Ma il governo italiano - con la Dc in maggioranza relativa -, pur in momenti poco appropriati ai discorsi di pace, si prodigava in favore della «distensione» tra i due blocchi.
Uscita sconfitta dalla guerra, l'Italia aveva bisogno di rompere l'isolamento, di rilanciarsi sulla scena internazionale e gli esponenti governativi individuarono nella costruzione di relazioni con l'Urss lo spazio per un'autonoma affermazione della Penisola.
Nell'estate del '61, mentre si aggravava la crisi di Berlino, il presidente del Consiglio Amintore Fanfani, in nome della pace mondiale, si recò in Urss per svolgere un'opera di mediazione tra Washington e Mosca. Il rendez-vous, sollecitato dalle stesse autorità russe, venne però ufficialmente considerato un fallimento dagli americani e dagli italiani. Non era vero.
nikita krusciov john fitzgerald kennedy
L'incontro - come risulta dalle carte riapparse dai fondi archivistici - stimolò nei sovietici il desiderio «di mantenere aperto un canale di dialogo bilaterale con l'Italia». Il risultato?
«La concessione di prestiti all'Urss da parte italiana, nonché accordi fra l'Eni e il Cremlino e, soprattutto, l'intesa raggiunta con la Fiat per la costruzione di uno stabilimento che avrebbe prodotto su grande scala auto per il mercato sovietico». I politici italiani erano impegnati in una doppia avventura: erano padri fondatori dell'europeismo e convinti atlantisti. Ma la battaglia per la «coesistenza pacifica» secondo loro prendeva forma anche nei patti per la costruzione di Togliattigrad. Gli scambi commerciali erano considerati anche un passaporto per successive alleanze politiche.
Sostenitore dei legami con l'Urss fu pure Giulio Andreotti. A lui si rivolse Gorbaëv per trovare ausilio in uno dei suoi momenti più bui: «Caro Giulio, vorrei contare innanzitutto sulla sua comprensione... poiché con la sua maestria politica può fare molto per impedire il dilagare della tendenza negativa nei rapporti tra l'Occidente e l'Unione Sovietica». Nel '90 l'Italia sostenne l'Urss con ingenti finanziamenti, circa 7 mila miliardi di lire in cinque anni.
Una scelta generosa che suscitò perplessità per la precaria economia sovietica. Nel nuovo secolo fu poi Silvio Berlusconi a raccogliere il testimone dei rapporti con la Russia di Putin: cercò di rilanciare la politica estera italiana attraverso la collaborazione con il mondo dell'Est e lo fece a modo suo, imboccando il percorso della "diplomazia personale", nello storico incontro con Putin del maggio 2002 a Pratica di Mare. Berlusconi, all'epoca a capo del governo, in seguito ha di frequente ripetuto che quello storico abbraccio pose fine alla guerra fredda. Complice la tolleranza dell'Occidente e la volontà irriducibile di fare affari si avviava la guerra calda, nel 2008 Putin invadeva la Georgia e nel 2014 proseguiva con l'annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass.
Oggi l'invasione dell'Ucraina dimostra che la paziente e decennale tessitura del matrimonio con la Russia, si è dimostrato fallimentare. Il connubio è durato a lungo ma Putin lo ha spezzato con feroce determinazione. Ora proprio l'economia ci vincola, siamo legati ai contratti energetici ed è andata in frantumi l'amicizia. La Russia ex Urss docet. Occhio alla Cina. Gli scambi commerciali non necessariamente sono le sentinelle della pace.