Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per “il Giornale”
E come d’incanto, la cultura woke è quasi scomparsa dalla Convention di Chicago. Kamala Harris l’ha ignorata nel discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca, ma in generale non ha avuto una presenza evidente nel congresso. «È stata — spiega il professore del Bard College Ian Buruma — una scelta deliberata. Perché così si vincono le elezioni, ma anche perché il partito Democratico vive una trasformazione politica».
[…] Ha notato anche lei la scomparsa delle tematiche woke?
«Certo. Penso sia stata una scelta molto deliberata, perché le presidenziali si vincono negli Stati in bilico, dove i democratici devono attirare gli elettori della classe lavoratrice lontani dalle città, irritati dalla politica culturale della sinistra progressista. Non sono interessati ai trans o alle battaglie identitarie e di genere. Ciò li ha spinti verso i repubblicani, minimizzare la guerra culturale serve a recuperarli».
kamala harris alla convention nazionale democratica di chicago
È un riposizionamento tattico, o sincero e di lungo termine?
«La sincerità è sempre difficile da giudicare, ma è stato di certo l’istinto di Biden. Lui non ha mai avuto interesse per questi temi, viene dal movimento sindacale e l’anima sociale dal partito. Harris un po’ di più, ma si rende conto che sarebbe una cattiva tattica dedicare troppo tempo alle guerre culturali, e non abbastanza ai problemi della classe media e lavoratrice».
kamala harris e tim walz - convention nazionale democratica chicago
[…] Ha scritto che lo spostamento dell’attenzione della sinistra dalla classe lavoratrice alla promozione delle cause culturali e sociali è stato un errore. Biden ha iniziato il riposizionamento?
«Sì. La sua vita e la sua carriera non fanno parte di quel progressismo culturale. Ma non è un fenomeno solo americano, è successo anche in Europa. Se guardi ai motivi per cui i vecchi partiti di sinistra in Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi sono calati, l’elemento chiave è lo spostamento dalla linea basata sul sindacalismo e gli interessi della classe operaia verso le questioni sociali e culturali, come razzismo, sessualità, genere. È comprensibile, perché il proletariato industriale occidentale si era rimpicciolito e non bastava più ai partiti di sinistra per vincere. Questa evoluzione però li ha anche danneggiati. Biden lo ha capito, ha enfatizzato di nuovo la classe media lavoratrice, e Harris sta seguendo il suo esempio».
DONALD TRUMP E LA FOTO MANIPOLATA DI KAMALA HARRIS A UNA CONVENTION COMUNISTA
I repubblicani l’accusano di essere una comunista.
«È chiaramente una sciocchezza, come Berlusconi che definiva così tutti i suoi avversari politici. Harris non è comunista più di quanto lo sia Trump, ma è il tipo di attacco che funziona con le persone più ignoranti di destra, che magari non sanno neppure cosa sia il comunismo. Viene usato come una parolaccia generica, un po’ come accade a sinistra col fascismo».
Harris non ha neppure menzionato di essere donna e nera. Lo ha fatto perché non era necessario?
«Sì, penso che abbiano imparato molte lezioni dal fallimento di Hillary. Fa parte della strategia di allontanarsi dalle guerre culturali. I democratici hanno vinto le Midterm del 2022 perché i candidati locali hanno parlato di economia e temi concreti che interessavano agli elettori, invece di razza o genere. Harris lo ha compreso e non vuole essere vista come il simbolo di un’identità, ma come la presidente di tutti gli americani».
[…] Per questo Trump fatica a trovare il modo di attaccarla?
«Sì, gli rende la vita molto difficile. Attaccandola personalmente come donna si aliena gruppi di elettori importanti, per un partito che già fatica molto ad attirare l’elettorato femminile a causa dell’aborto».
Lei ha perso la direzione della “New York Review of Books” perché aveva pubblicato l’articolo di un autore accusato di molestie. Il riposizionamento dei democratici sulla cultura woke potrebbe cambiare il modo in cui vengono giudicati simili casi?
«In una certa misura sta già accadendo, il dibattito è meno polemico rispetto al 2020. Molto dipenderà dalle elezioni. Gran parte dell’isteria più estrema è un fenomeno d’élite, che riguarda università, editori, musei, il mondo culturale delle grandi città, che la New York Review of Books incarna. Ma è un mondo piuttosto piccolo. Harris e i democratici lo hanno capito. Se Trump vincesse, infiammerebbe le emozioni della sinistra e la guerra culturale peggiorerebbe. Se perderà, la gente si calmerà abbastanza rapidamente».
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