Francesca Schianchi per "la Stampa" - Estratti
Solo il risultato del voto ha evitato, martedì, che la polemica deflagrasse tra i dem. Quando è stato chiaro che tutta l'opposizione non avrebbe messo piede in Aula, e la maggioranza si è trovata costretta alla scheda bianca per non bruciare il suo candidato alla Corte costituzionale, a largo del Nazareno hanno tirato un sospiro di sollievo. La tattica dell'Aventino, stavolta, ha funzionato: l'unica condizione per mettere a tacere un malumore emerso qua e là nel partito già sulla Rai, e ancora più esplicitamente nella riunione dei gruppi di due giorni fa che ha deciso l'atteggiamento sulla Consulta.
La segretaria Elly Schlein lo aveva pubblicamente annunciato sabato scorso: non entriamo in Aula e invitiamo anche le altre opposizioni a non farlo. In polemica con il tentato blitz della maggioranza, ma anche, sottotesto chiaro a tutti, per boicottare qualunque eventuale accordo segreto con la destra.
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Martedì mattina alle 9, deputati e senatori dem riuniti ma la segretaria assente, la linea viene ribadita, anticipata anche dai giornali: e a molti di loro sembra un déjà vu. Della riunione di due settimane fa sulla Rai, stessa identica decisione, illustrata quella volta da Schlein in persona: non partecipiamo al voto perché il metodo è sbagliato. Molti sguardi stupefatti, qualcuno visibilmente contrariato, ma un unico intervento di Annamaria Furlan a favore.
Ma sembra anche il replay di un numero ormai apprezzabile di altri incontri: dalla commissione Covid all'esame del decreto carceri ai lavori in Commissione giustizia all'indomani del caso Delmastro-Donzelli, cominciano a essere tante le occasioni in cui il Pd ha detto «noi non ci stiamo». Persino troppe, mormorano nel partito.
Così, all'ennesima proposta di Aventino, gli interventi degli eletti alla riunione di martedì cominciano a mettere in guardia sul rischio di passare per quelli che, quando il gioco si fa duro, scappano. «Se oggi decidiamo di non partecipare al voto, dal minuto dopo dobbiamo però impegnarci per fare capire le nostre posizioni», lo sprone di Alessandro Alfieri, senatore lombardo, coordinatore della corrente di minoranza Base riformista.
È il costituzionalista torinese Andrea Giorgis a incaricarsi di spiegare: «Non partecipiamo al voto perché non assecondiamo il metodo della destra che nega la natura terza dei componenti della Consulta. Non è una scelta partigiana, ma a garanzia del Paese», prova a spiegare con cura in modo che, fuori da quella stanza, ogni dem interrogato sulla vicenda possa rendere al meglio il senso dell'ennesimo Aventino. Perché, anche nella maggioranza del partito, quella più fedele a Schlein, si comincia a temere che, comunicativamente, l'abbandono dell'Aula rischi di diventare un marchio di fabbrica e perdere di efficacia: ah, il Pd, gli aventiniani.
Non a caso, nel corso della riunione, è lo stesso capogruppo Francesco Boccia a biasimare «formule giornalistiche» che possono ingessare la posizione del partito, mentre la segretaria nel pomeriggio, accanto alla soddisfazione per la compattezza delle opposizioni, ripete a tutte le agenzie pure quel passaggio, «l'Aventino lo hanno fatto loro». La destra, intende, negando la discussione sul candidato: ma insomma è chiaro che vorrebbe evitare le venisse appiccicata un'etichetta.
Un'etichetta che nel Pd non piace anche per un'altra ragione. La scelta di abbandonare l'Aula serve anche, è chiaro a tutti, a evitare i franchi tiratori, come sottolineava ieri su queste pagine il Buongiorno di Mattia Feltri, commentato con amarezza da molti nel partito.
Quando si parla di voti sensibili, l'Aventino restituisce una sotterranea sfiducia tra gruppi parlamentari, nati sotto un'altra dirigenza, e attuale segreteria. Non esattamente un'impressione di armonia e stima reciproca.
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