Tommaso Labate per il Corriere della Sera
«Se volete sapere come la penso, ecco, non ho mica cambiato idea». Il tono di voce è secco, i modi netti, non c' è spazio all' interpretazione. Tutte le volte che in privato qualcuno tira fuori con Matteo Salvini il tema del reddito di cittadinanza - e nella settimana che ha portato alla nota di aggiornamento del Def è successo più di una volta - il leader della Lega ribadisce di non aver cambiato opinione.
Il riferimento ovviamente è a tutte le volte, e non erano poche, che Salvini s' era scagliato contro la proposta più cara ai Cinquestelle prima di stringere i bulloni dell' accordo di governo con Luigi Di Maio. «Il reddito di cittadinanza è un reddito all' immigrazione», aveva detto l' anno scorso. È una misura «assistenzialista», aveva precisato qualche giorno dopo le elezioni del 4 marzo, ribadendo che la Lega sarebbe stata «indisponibile» ad approvare una misura del genere.
Ma dietro quel «non ho cambiato idea», sussurrato negli ultimi giorni al riparo da sguardi indiscreti, c' è lo scenario su cui la pattuglia dei leghisti al governo, a cominciare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, si è esercitata nelle ore più tese della settimana scorsa, le stesse che hanno rischiato di portare alle dimissioni del ministro Tria. «Sarà una misura boomerang», s' è sentito dire Salvini durante una delle riunioni della delegazione del Carroccio.
I soldi stanziati, quei dieci miliardi che hanno ballato per giorni tra il ministero dell' Economia e Palazzo Chigi, servono a malapena per arrivare a un quarto dei 780 euro mensili promessi. E il rischio di «un boomerang mediatico» pronto a travolgere l' impatto rumoroso delle promesse pentastellate, è il ragionamento dei leghisti, è dietro l' angolo. Com' è dietro l' angolo, ragionano i salviniani, c' è anche la paura che i grillini si trovino presto a giustificare coi loro elettori la scelta di aver replicato - a spanne - gli ottanta euro di Renzi.
SALVINI DI MAIO CONTE BY SPINOZA
Da qui la decisione di Salvini di tenersi alla larga da un provvedimento che, come certificato dal sondaggio di Nando Pagnoncelli pubblicato sabato dal Corriere della Sera, non convince più della metà degli italiani. Da qui anche la scelta salviniana, per quello che sarà possibile, di nominare il reddito di cittadinanza il meno possibile. Anzi, di più, di rimuoverlo dalle parole d' ordine leghiste. Un modo come un altro per dire, «quella non è una cosa che ci riguarda». Fa parte di un contratto firmato, e nulla più.
È fondamentalmente per questo, più che per una scenografia giudicata «azzardata», che i leghisti sono rimasti allibiti quando hanno assistito - e il Consiglio dei ministri non s' era ancora esaurito - all' uscita sul balcone di Palazzo Chigi di Di Maio e compagnia. «Non hanno fatto bene i conti.
Questa scena gli si potrebbe presto ritorcere contro», ha sussurrato qualcuno guardando nella direzione di Giovanni Tria, che aveva appena finito l' ultimo disbrigo di una questione tecnica col presidente del Consiglio. Lo stesso ministro dell' Economia s' era appena convinto a rimanere al suo posto dopo aver ottenuto da Giorgetti la garanzia che i paletti della manovra non cambieranno più di un millimetro. «Questo giorno è l' ostacolo più grande che dovrai sopportare. Da qui sarà tutta discesa», è stata l' argomentazione del sottosegretario. Bastano o non bastano, «i soldi per il reddito di cittadinanza saranno quelli». Come dice Salvini in privato, «neanche un euro di più».
SALVINI DI MAIO CONTE GIORGETTI