Estratto dell’articolo di Carlo Di Foggia per “il Fatto quotidiano”
Matteo Renzi lo vendette come un sogno […] (“è arrivato il futuro”), ma il disastro della banda ultralarga nasce dalla sua creatura Open Fiber. Sette anni dopo, il piano dello statista di Rignano e dei suoi consulenti si è sfracellato contro la dura realtà, ma c’erano tutti gli elementi per prevederlo già nell’aprile 2016 quando a Palazzo Chigi annunciò l’impresa di sfidare Tim sulla rete.
Oggi […] il bubbone OF resta in capo alla Cassa depositi e prestiti e al fondo australiano Macquarie. Il risultato è che da anni i governi di ogni colore cercando di capire come riunificare (e salvare) le reti che Renzi volle divise e in concorrenza. Open Fiber era una sfida economicamente insensata fin dall’inizio. Renzi impose a Francesco Starace, piazzato un anno prima in Enel, di dare vita a una società che sfidasse Tim, accusata di aver frenato lo sviluppo della rete lesinando sugli investimenti.
A fine 2016 aveva già ordinato al presidente di Cdp, Claudio Costamagna, di entrare nell’operazione con il 50%. Gli investitori fantasticati da Starace erano infatti spariti quasi subito. Il fondo F2i, dopo aver venduto a prezzi stellari la piccola Metroweb a Cdp ed Enel, si era rimangiato la promessa di reinvestire il 30% in Open Fiber.
Il problema è che scavare per posare i cavi della fibra ottica è costosissimo, tanto più se non hai l’esperienza e le economie di scala di Tim. L’ad Tommaso Pompei lanciò subito OF nelle gare per le “aree bianche” a fallimento di mercato, forzando brutalmente sul prezzo per sbaragliare Tim. I bandi Infratel sono stati vinti con un ribasso del 40%, insensato per una startup partita con soli 400 dipendenti.
RENZI STARACE BRUGNARO BIANCO DECARO BANDA LARGA
I costi sono esplosi e i margini non arrivano. Open Fiber è operatore “wholesale only”: posa solo la fibra che poi affitta agli operatori, ma questi ultimi latitano per cui oggi è nella tragica situazione in cui più scava e più ci perde. La copertura della fibra doveva finire nel 2020, oggi siamo poco sotto il 50%, se va bene si finirà nel 2025, in aperta violazione delle concessioni (Infratel s’è limitata a multe da decine di milioni) e serviranno altri investimenti per rendere davvero interconnessa la sua rete con quella degli altri operatori.
Non contento, il nuovo ad Mario Rossetti (scelto a fine 2021 da Cdp) s’è fiondato sui bandi per le “aree grigie”, quelli a parziale fallimento di mercato, previsti dal Pnrr. Per farlo, si è fatto rifinanziare dalle banche un piano ancora più aggressivo salendo da 7 a 11 miliardi di investimenti. I ritardi però si sono accumulati quasi subito e il 2022 s’è chiuso in maniera disastrosa.
Ricavi a 470 milioni, margine lordo salito di soli 27 milioni (a 179 totali) e perdite per 162 milioni (210 milioni del 2021) mentre il debito è a quota cinque miliardi (25 volte il margine lordo) e pare destinato a salire a sei entro fine anno. Le banche hanno iniziato a farsi sentire. I soci dovranno mettere subito altri 400 milioni (la richiesta era di 1 miliardo) per evitare di dover subito rinegoziare il debito, ma la strada sembra segnata.
In questo quadro è davvero incredibile che Starace sia riuscito a far uscire Enel nell’agosto 2021 con una plusvalenza da 1,7 miliardi vendendo il 40% agli australiani di Macquarie e il 10% (per 534 milioni) alla stessa Cdp per garantirle il controllo sulla base di una valutazione monstre di Open Fiber di quasi 7 miliardi (38 volte il margine lordo).
Il risultato è che finora la Cassa ha speso più di un miliardo in un’avventura insensata. Macquarie - allettata dal piano del governo di fondere le reti di Open Fiber e Tim e consigliata proprio da Pompei - s’è infilata in un investimento disastroso, costato subito il posto all’allora capo del ramo investimenti Jiri Zrust. Oggi OF è la prima vittima del tramonto dell’operazione della “rete unica”, nata fin da subito per salvare con soldi pubblici due società in crisi, visto che anche Tim arranca sotto il peso del suo maxi-debito.
Sul fronte dell’ex monopolista lo stallo è totale. Entro il 9 giugno dovranno arrivare i rilanci delle due offerte arrivate per la rete di Tim: quella di Cdp-Macquarie e quella del fondo Usa Kkr. Gli australiani però tentennano e Palazzo Chigi, con l’assenso di Meloni, preme per far passare la Cassa con Kkr, mossa che Macquarie ha già minacciato di portare in tribunale, forte degli accordi siglati. Il vero ostacolo resta però il primo azionista Vivendi, che ha bocciato entrambe le offerte e con il suo 24% può bloccarle.
I francesi cercano di aprire senza successo un dialogo col governo ma vogliono far subito cooptare in cda l’ex presidente di Leonardo Luciano Carta, che però non piace né a Chigi né a Cdp, pronte a fermare la nomina con interventi a gamba tesa. Insomma, il solito caos. La realtà è che con le offerte dei fondi non si va lontano, ma il governo non ha un piano. L’unica certezza è che il conto finale lo pagherà lo Stato, cioè noi, ammesso riesca l’operazione di rimettere il dentifricio nel tubetto.