Andrea Cangini per www.huffingtonpost.it
Il 18 agosto del 1970, Ennio Flaiano raccontò sul Corriere della Sera un insolito siparietto di cui fu involontario protagonista quasi vent’anni prima durante una colazione al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Scrisse, tra l’altro, Flaiano:
«Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io – disse - prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?”. Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico.
Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia lo battei di volata: “Io Presidente”, dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista...».
Un piccolo aneddoto, ispirato dal quale ci fu chi ipotizzò, allora, la nascita di una “Repubblica della mezza pera”. Un piccolo aneddoto da cui risulta un presidente della Repubblica forte ma semplice, empatico ma parsimonioso, e perfettamente inserito in quella genia di uomini di Stato che, come Marco Minghetti, che prima di lasciare il suo ufficio al ministero delle Finanze ogni sera segnava il livello del petrolio nella lampada per prevenirne il furto, hanno a cuore i conti pubblici prima di ogni altra cosa. (…)
EINAUDI
Pierluigi battista per huffingtonpost.it
Dal discorso di investitura di Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica, ecco un brano letto da Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, durante una commemorazione einaudiana:
“Nelle vostre discussioni, signori del Parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che ci siamo liberamente date. E se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi per vostra volontà da voi è questa: di non poter più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune, e di non poter più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a sé stessi di avere in tutto o in parte torto. E di accettare, facendola propria, l’opinione di uomini più saggi di noi”.
E’ un brano meraviglioso, un reperto della civiltà liberale oramai in via di estinzione, schiacciato dalla nuova intolleranza, dall’incapacità di discutere, dalla refrattarietà al metodo del libero conflitto delle idee. La grandezza dell’”essere costretti dalle argomentazioni altrui a confessare a sé stessi di avere in tutto o in parte torto” è letteralmente incomprensibile nella nuova stagione fanatica e ignorante del twittarolismo aggressivo surrogato della discussione, nell’insofferenza per il dissenso, per il pensiero divergente, per l’opinione anche terribilmente sgradevole, per l’integralismo che sostituisce il confronto delle idee con il coro dell’indignazione e che demonizza chi non la pensa come noi e ne teme l’infezione morale. Ecco perché bisogna essere orgogliosi del grande liberale che Einaudi è stato. E perché non possiamo non dirci einaudiani. Nel senso di Luigi.
LA GRANDEZZA POLITICA DI LUIGI EINAUDI
GUIDO STAZI per MF – Milano Finanza
Il primo novembre del 1961 il feretro di Luigi Einaudi, poggiato su un affusto di cannone e scortato a piedi da quattro corazzieri, attraversò Roma tra due ali di folla. Era scomparso il 30 ottobre, esattamente sessanta anni fa. Già da sei anni aveva lasciato il Quirinale, poco dopo la morte di Alcide De Gasperi, con cui aveva formato un binomio che, dal dopoguerra, aveva impresso all'economia e alla politica italiana un indirizzo preciso e non modificabile per molti anni a seguire.
Questo sodalizio umano e politico, reso autentico dai comuni convincimenti in ordine alla necessità di mantenere gli assetti e le garanzie della democrazia liberale, dell'economia di mercato, di solidi e condivisi legami atlantici, informò il dopoguerra e pose le basi per la rinascita dell'economia italiana e per il boom degli anni 50 e 60.
E collocò stabilmente l'Italia in Europa e nella parte occidentale del mondo. Einaudi è ricordato come un grande economista accademico. Ma fu anche un politico di razza; nominato nel 1919 Senatore del Regno, fu tra quelli che denunciarono le responsabilità fasciste nel delitto Matteotti, contestando in uno scritto del 1924 la cecità degli industriali che continuavano ad appoggiare Mussolini. Il primo maggio del 1925 firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel 1928 fu tra i pochi senatori che si opposero all'approvazione della nuova legge elettorale a lista unica formata dal Gran Consiglio del fascismo. Non votò i Patti Lateranensi e si oppose alla campagna di Etiopia. Nel 1938 votò contro le leggi razziali con altri tre senatori.
Da sempre fu liberale, spesso aderendo alle formazioni politiche che si ispiravano a quei principi; già nel 1899, poco più che ventenne, in un articolo pubblicato su La Stampa tracciava le linee del programma economico di un partito liberale, basato su una politica antitrust diremmo oggi, affermando che per accrescere la ricchezza prodotta nel Paese andavano eliminati gli ostacoli posti dallo Stato e dai monopolisti allo sviluppo economico; e quindi smantellare tutte le bardature protezionistiche e instaurare una politica commerciale di libero scambio.
E nel 1919, all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, scriveva che i comunisti russi «sono come i bambini, vogliono scomporre e fare a pezzi la macchina produttrice, per vedere come è fatta dentro, nell'illusione di poterne rimettere a posto i pezzi meglio. Ma il mercato è opera lenta e secolare della collaborazione di milioni di uomini pazienti, previdenti, geniali e lavoratori». Non cambiò mai idea, e soprattutto per questo fu chiamato nel 1944 dal governo Bonomi, su indicazione degli alleati angloamericani, nella Roma liberata per assumere la carica di governatore della Banca d'Italia, lasciando l'esilio svizzero.
Dove aveva intessuto stretti rapporti con due alti funzionari delle ambasciate americana e inglese a Berna, rispettivamente Allen Dulles e John Mc Caffery, spesso citati da Einaudi nel suo Diario dell'esilio; che in verità erano i capi dei servizi segreti in Europa di Stati Uniti e Regno Unito, responsabili del teatro di guerra e delle scelte atte a limitare nel dopoguerra l'influenza degli alleati sovietici nell'Europa liberata. Dulles fu poi nominato a capo della Cia dal presidente Eisenhower.
Il 15 gennaio 1945, alla presenza del governo e del Comando delle forze alleate, Einaudi a 71 anni si insediò alla Banca d'Italia. Ma la guida della banca centrale fu solo la premessa di una serie di alti incarichi politici: nel settembre 1945 entrò a far parte della Consulta Nazionale, nel giugno 1946 venne eletto come esponente del partito liberale all'Assemblea Costituente; il 31 maggio del 1947, nel IV governo De Gasperi, divenne vice presidente del Consiglio e ministro del Bilancio, in corrispondenza dell'uscita dal governo del partito comunista di Palmiro Togliatti. Poche mesi prima, nel gennaio del 1947 il presidente del Consiglio De Gasperi era andato Washington, accompagnato da due collaboratori di Einaudi, Donato Menichella e Guido Carli (divenuti poi entrambi governatori della Banca d'Italia); in quel viaggio si stabilirono le condizioni, anche politiche, dell'accesso dell'Italia agli aiuti americani, il Piano Marshall, poi varato nel successivo giugno col nome di European Recovery Plan (Erp); il giorno prima della partenza di De Gasperi, Einaudi annotava nel suo Diario di una cena a casa dell'Ambasciatore d'Italia in Unione Sovietica Quaroni, in cui si conveniva che gli Stati Uniti gli aiuti veri non li avrebbero concessi con i comunisti ancora al governo.
L'Italia avrebbe poi ottenuto circa 1,2 miliardi di dollari a fondo perduto dall'Erp. Risultò quindi naturale il pieno coinvolgimento di Einaudi nel governo, una volta sciolto il nodo politico della presenza dei comunisti nell'esecutivo. Einaudi pose anche la condizione di poter governare in modo effettivo la politica economica; il 31 maggio del 1947, poco prima del giuramento del governo, De Gasperi metteva per iscritto l'accordo che conferiva a Einaudi le deleghe di politica economica mantenendo il governatorato della Banca d'Italia. Un anno dopo, l'11 maggio del 1948 Luigi Einaudi fu eletto dal parlamento in seduta comune presidente della Repubblica, al quarto scrutinio con 518 voti. Il presidente Einaudi, al centro del suo breve (due pagine) ma intenso discorso alle Camere, pose i principi fondamentali che a suo parere informavano la Costituzione della Repubblica Italiana (la libertà e l'uguaglianza) ed espresse tutto il suo sostegno alla ricostruzione nazionale, economica e politica, in una prospettiva occidentale ed europea.
MARIO DRAGHI GUIDO CARLI NEL 1991
La nomina a presidente Repubblica chiude idealmente un triennio, dal 1945 al 1948, in cui le iniziative politiche (nazionali e internazionali), le idee e le azioni di governo dell'economia di Einaudi furono determinanti per la ricostruzione della Nazione su basi liberali e democratiche.
* economista.
Corriere della Sera - Flaiano e la mezza pera di Einaudi