Estratto dell’articolo di Federico Rampini per il “Corriere della Sera”
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[…] Trump deve un’immensa gratitudine al partito democratico: cinicamente, con un calcolo machiavellico che credevano geniale, i notabili del partito (Joe Biden in testa) hanno fatto di tutto per aiutare Trump a riconquistare ancora una volta la nomination del Grand Old Party. Convinti che fosse il nemico più fragile, il candidato più debole, che avrebbero sconfitto facilmente, gli hanno scatenato addosso […] una ridda di inchieste giudiziarie spesso arzigogolate e inconsistenti.
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Lo hanno demonizzato dandogli del fascista, implicitamente (o esplicitamente) insultando mezza America che lo sosteneva. In una fase di malcontento generalizzato sullo stato della nazione, la vittoria elettorale dell’opposizione era prevedibile: è il vento che tira a livello mondiale, chi governa ha perso voti in Inghilterra, Francia, India. Ma che a guidare l’opposizione fosse di nuovo Trump non era scontato […]
A questi errori già enormi si sono aggiunti quelli della nomination oligarchica di Kamala Harris. Pessima candidata che era uscita di scena malamente nelle primarie del 2020, Harris non ha mai avuto un’investitura dalla base del suo partito, non è mai passata attraverso un processo di selezione democratica, non ha mai dovuto confrontare le sue idee e il suo programma con dei rivali interni.
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È stata premiata, in una logica mafiosa, per aver partecipato alla congiura omertosa del silenzio sulla salute di Biden. È stata catapultata in campagna elettorale dalla Casa Bianca e dai notabili del suo partito (alcuni dei quali titubanti fino all’ultimo, vedi l’endorsement tardivo di Barack Obama). Ha dovuto riconoscere di fatto – senza mai dirlo – che Trump aveva ragione su punti qualificanti.
Harris versione 2020 era per le frontiere spalancate a chiunque volesse entrare in America; Harris versione 2024 dava ragione a Trump sulla necessità di controllare i flussi migratori con rigore implacabile. Idem su: dazi contro la Cina, politica energetica, ordine pubblico e lotta alla criminalità. Una serie di voltafaccia spettacolari, calati dall’alto, senza mai riconoscerli in modo aperto, senza mai condannare gli errori commessi in passato: nella speranza di acchiappare voti moderati senza perdere i consensi dell’estrema sinistra e dell’élite radicale che comanda nei media, nell’accademia, a Hollywood.
Quando infine a pochi giorni dal traguardo il clan Harris ha sentito scivolare via la vittoria, è scattato il ricatto: o votate per me o siete dei nazifascisti. Perfino Obama ci ha messo del suo, bacchettando i maschi black: se non votate per lei vuol dire che siete sessisti, maschilisti, patriarcali. Risultato, in uno Stato-chiave del Sud come la Georgia Trump ha raddoppiato i suoi consensi tra i maschi black. […]
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All’elenco degli errori compiuti se ne può aggiungere qualcuno da evitare nel Day After. Primo, non cominciamo a teorizzare che la democrazia americana è malata. Non può essere sana solo a condizione che vincano i nostri. Secondo, non rifugiamoci nel complottismo tante volte denunciato quando lo pratica la destra. No, non è colpa di Elon Musk che ha sostenuto Trump o di Jeff Bezos che ha negato a Harris l’endorsement del suo giornale (Washington Post). Gli stessi Musk e Bezos avevano sostenuto i democratici fino al ciclo elettorale precedente, senza che nessuno si scandalizzasse. Né ha fatto scandalo che la maggioranza degli altri miliardari (Bill Gates, Mark Zuckerberg, Michael Bloomberg, George Soros) abbia continuato a sostenere il partito democratico.
Harris ha ricevuto e ha speso molti più soldi di Trump in questa campagna. Infine c’è da augurarsi che nelle redazioni di giornali e tv non ricominci la «guerra partigiana», la «mobilitazione antifascista» che ha portato la sinistra ad autoglorificarsi senza conquistare un solo voto in più. Insultare e offendere è un vizio in cui eccelle Trump ma purtroppo non ne ha il monopolio. Tanta élite progressista ha trasudato disprezzo classista verso gli elettori di destra contribuendo a spingerli nelle braccia del 47esimo presidente.
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Anche lui naturalmente rischia di compiere degli errori. Prima ancora di osservare ciò che farà in Ucraina o in Medio Oriente, o di quanto vorrà ingigantire il deficit pubblico americano con misure demagogiche, il rischio immediato per Trump è sopravvalutare la propria vittoria. […] Trump non ha incassato il mandato per una rivoluzione. Al contrario: molti dei suoi elettori si aspettano un ritorno alla normalità, dopo gli eccessi di una sinistra troppo radicale.
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Dall’ordine pubblico al controllo delle frontiere, dal patriottismo all’importanza della famiglia, la metà della nazione che lo ha votato auspica cose che fino all’epoca di Bill Clinton erano un patrimonio bipartisan, facevano parte di un bagaglio di valori condivisi sia a destra sia a sinistra. Se Trump eccede a sua volta nell’interpretazione del suo mandato, le elezioni di mid-term sono già dietro l’angolo. I presidenti degli Stati Uniti sulla carta hanno un incarico quadriennale, nella realtà spesso si sono visti dimezzare i poteri dopo un biennio.