Massimo Montanari per “La Stampa – TuttoLibri”
Quando Carlo Magno confessa che il suo cibo preferito è la cacciagione arrostita allo spiedo, non sta facendo una valutazione gastronomica ma una dichiarazione politica. Quando Eginardo, suo cortigiano nonché biografo, informa i suoi lettori e ascoltatori di questa predilezione, non sta entrando nella sfera intima e privata della vita del sovrano ma sta rappresentando la dimensione politica in cui egli si muove.
Così quando riferisce che l’imperatore è impossibilitato a osservare i digiuni imposti dalla normativa ecclesiastica, che giudica «nocivi al suo corpo». E che non riesce a trattenersi dal mangiare molta carne – cosa che negli ultimi anni di vita lo fece soffrire di gotta: ma non per questo abbandonò le sue abitudini alimentari, ignorando i consigli dei medici di corte che gli suggerivano, almeno, di passare dalle carni arrosto ai bolliti.
Tutti questi sono discorsi politici, perché nella cultura dell’epoca (siamo nell’Europa del IX secolo) mangiare molto era un tratto distintivo del potere, quasi un obbligo sociale, per dimostrare l’appartenenza alla società dei forti. Carne significava potere, soprattutto se procurata con la caccia, attività apparentata alla guerra sul piano tecnico oltre che simbolico.
Perciò quella del guerriero-cacciatore è una vera e propria icona del potere, immagine politica per eccellenza – aggiungiamo che nell’immaginario dell’epoca, così come nella pratica sociale, i bolliti sono percepiti come cibo da contadini.
Il fatto, poi, che Carlo Magno ostenti una certa moderazione nel bere (Eginardo c’informa che odiava l’ubriachezza) o che mostri di conoscere le regole ecclesiastiche dell’astinenza e del digiuno (per disattenderle, però) sono strategie narrative che il biografo tiene a mettere in scena perché si è posto un obiettivo a dir poco paradossale, una mission impossible che però in qualche modo riesce a sostenere.
carlo magno ghiotto di arrosto
La missione è rappresentare il grande imperatore come espressione perfetta della sua gente, dell’aristocrazia franca e della sua cultura (dunque un grande cacciatore, un grande mangiatore, un grande divoratore di carne) senza però dimenticare che quell’imperatore è anche il campione della fede cristiana, che, sostenuto dal pontefice romano, ha deciso di imporre – anche con la forza – ovunque riesca ad affermare il suo potere. Quindi dev’essere anche un bravo cattolico, capace di interpretare i valori religiosi della moderazione alimentare e del controllo di sé: valori, di fatto, contrastanti con quelli della cultura aristocratica di estrazione germanica.
A complicare ulteriormente le cose, Carlo Magno avrebbe la pretesa di presentarsi come rinnovatore dell’impero romano d’Occidente, dunque di un’esperienza e di una cultura politica che aveva assunto come modelli di vita – non sempre rispecchiati nella pratica quotidiana – la sobrietà, la moderazione, l’adesione a un ideale di semplicità «contadina» che perfino gli imperatori erano tenuti a rappresentare, se volevano essere percepiti come «autentici» romani.
Il modello era Augusto, prototipo del principe-imperatore, che il biografo Svetonio descrive esattamente in quel modo, indugiando su certe predilezioni alimentari (piccoli pesci, verdure del territorio, carne poca, vino senza eccedere…) che sono un vero manifesto politico. Eginardo, quando si mette a scrivere di Carlo Magno, ha davanti a sé proprio Augusto, la biografia di Augusto tracciata da Svetonio. Se vuole che Carlo Magno in qualche modo gli assomigli, deve introdurre – a costo di forzare la realtà dei fatti – aspetti come la moderazione, la semplicità e via dicendo. Aspetti funzionali anche a rappresentare l’identità cristiana dell’imperatore.
In questo modo, il racconto di Eginardo si trasforma in una divertente successione di ossimori retorici, giustificati da un uso sapiente di aggettivi, avverbi, congiunzioni: l’imperatore è sobrio nel bere, ma un po’ meno nel mangiare; conosce bene le regole alimentari ecclesiastiche ma non può seguirle per motivi di salute; a tavola si fa servire solo quattro portate (l’avverbio è limitativo, ma il numero è cresciuto rispetto allo standard di Augusto, che si accontentava di tre). Ed ecco arrivare il colpo finale: in quelle portate, naturalmente, gli arrosti di selvaggina non sono contati – su quelli non c’è discussione e si può sorvolare.
L’interesse di questo testo sta nel fatto di evidenziare in modo perfetto come ogni racconto sul cibo sia, appunto, un racconto, pieno di implicazione ideologiche e in senso lato politiche. La dimensione individuale, corporea, biologica del mangiare allo storico è preclusa: ciò che veramente sentiva Carlo Magno non lo sapremo mai, e neppure ciò che pensava. Sappiamo invece ciò che diceva e che voleva si dicesse di lui.
Ogni racconto sul cibo (ma potremmo dire: ogni racconto) è politico. Per questo mi sono ingegnato ad analizzare il testo di Eginardo (che non è neppure il racconto di Carlo Magno, ma un racconto del racconto di Carlo Magno) nel primo capitolo di un libro dedicato alla Cucina politica. È un libro che raccoglie una ventina di saggi – ma pensiamoli piuttosto come racconti: racconti di racconti di racconti… – scritti da altrettanti specialisti, attorno alla dimensione politica del cibo. O meglio, alla doppia dimensione politica del cibo.
Che da un lato mette in luce la funzione del cibo come segno di appartenenza a una comunità (di qualunque genere essa sia: sociale, territoriale, religiosa, professionale, ecc.), insomma l’essere e sentirsi cittadino di quella che i Greci chiamavano polis. Dall’altro, i discorsi e le immagini che entrano in campo quando i pubblici poteri – la politica in senso più stretto e ovvio – mettono in opera azioni alimentari per gestire e definire il rapporto con i cittadini (o, in altre epoche, sudditi).
Per esempio – fin dal tempo di Carlo Magno – le ordinanze legislative per prevenire o rimediare ai cattivi raccolti, alla mancanza di cibo, alla fame. Il volume Cucina politica segue questo duplice binario su un lungo arco temporale, che parte dal Medioevo per arrivare a oggi, anzi a domani. Lo fa utilizzando competenze diverse, messe in campo da studiosi di varie discipline: storia, antropologia, semiotica, filosofia, storia dell’arte. Quando si tratta di cibo e di cucina, uno sguardo interdisciplinare è poco meno che indispensabile.
Ciò che si ribadisce, e si dichiara nel sottotitolo del volume, è che il cibo è comunque una forma di linguaggio. Al di là del suo valore nutrizionale esso significa e veicola idee e messaggi di straordinaria densità, che ovviamente cambiano nello spazio e nel tempo, come ogni espressione culturale, ma in ogni tempo e in ogni spazio hanno una formidabile forza espressiva, quale solo gli oggetti e le pratiche d’uso quotidiano riescono ad avere.
Le due prospettive attorno a cui si muove questo libro sono ampiamente frequentate dalla letteratura storica: la questione delle identità espresse attraverso i comportamenti alimentari nell’ultimo ventennio è stata al centro di numerosi studi, convegni e pubblicazioni; la dimensione politica del tema è anch’essa assai presente nel dibattito scientifico, per lo più focalizzata sugli interventi pubblici nella gestione delle risorse, della produzione, del commercio di generi alimentari.
Il carattere innovativo di questa Cucina politica sta nel fatto di tenere strettamente legate le due prospettive, considerando il linguaggio del cibo come fatto in se stesso politico, giacché le forme di comunicazione non si limitano a esprimere il reale, ma contribuiscono a crearlo.
Il lettore è accompagnato in un viaggio affascinante, che dopo i pranzi di Carlo Magno ci porta ai banchetti diplomatici del tardo Medioevo, al confronto di modelli alimentari al tempo della conquista dell’America (con l’incontro-scontro fra colonizzatori e indigeni), alla cultura politica di Luigi XIV che si rifà alla tradizione medievale del «re fornaio», capace di tradurre in azione il compito «paterno» di nutrire il suo popolo. Quindi ci si inoltra nelle strategie di comunicazione alimentare della propaganda fascista e nella parabola storica della «dieta maoista», un’utopia rapidamente trasformatasi in dramma sociale.
Temi ottocenteschi come il nazionalismo, o di bruciante attualità come il sovranismo, il nativismo, le paure di contagio trovano qui la loro declinazione alimentare. Così pure il tema della patrimonializzazione, con i rischi che l’accompagnano. Suggestive riflessioni sono proposte – sempre abbinando “pratiche” e “discorsi” – sulla dimensione politica delle forme artistiche (dalle arti visuali al cinema), della scienza dietetica, dei sensi che governano il rapporto col cibo (il gusto, l’olfatto). Nel saggio conclusivo del volume, la stessa educazione alimentare viene analizzata come fatto squisitamente politico.
Cucina politica, l’espressione che dà titolo al libro, è presa a prestito da un film del 2004, Politiki kouzina, del regista greco Tassos Boulmetis. Il racconto del film si dipana in un contesto geopolitico difficile, quello del conflitto greco-turco e della deportazione dei greci di Istanbul, dove anche un «tocco di zenzero» (questo il titolo del film nella versione italiana) può servire a richiamare affetti familiari e valori di identità collettiva. Ed è polivalente il senso di politiki, che indica l’azione di governo, la politica in senso stretto, ma anche l’appartenenza alla polis cioè alla città e in questo caso alla polis per eccellenza, Costantinopoli. Insomma un gioco di specchi linguistico, perfettamente idoneo a esprimere la complessità di prospettive della «cucina politica».